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23 Giu 2017
Gestire il personal branding
Il tema del trattare se stessi e il proprio nome come un marchio ed applicare le categorie del marketing alla propria vita è una attività che negli ultimi anni ha trovato grande diffusione e pratica.
Non è strano.
Quando i mercati sono alle strette e non hanno confini, se non quelli che metti tu, la competitività diventa parossistica.
Qualunque cosa è un’alternativa ai miei prodotti e servizi che sono in concorrenza con merce e prestazioni che fino a ieri avrei classificato come innocue e ininfluenti per la mia performance.
Come l’influenza aviaria si sposta dagli animali all’uomo, questa competitività si trasferisce dalle cose alle persone.
Siamo noi i prossimi a essere passibili di sostituibilità.
Noi che credevamo di essere gli unici giudici, ora ci ritroviamo a essere giudicati.
Poco male per i venditori coscienti.
Molto male per i venditori incoscienti, nel senso di chi non ha cognizione di sé e del significato dei propri atti.
La gara è così spietata che l’asset, il patrimonio, la caratteristica più idonea da sfruttare, la meno imitabile e la più monetizzabile è il proprio profilo personale.
Ecco allora la trasposizione di alcune mosse di marketing aziendale in campo personale.
Competenza. Sapere risolvere problemi reali.
Visibilità. Che la gente sia in grado di sapere che gli puoi risolvere questi problemi.
Una rete che trasmetta la tua capacità e generi opportunità, connettendo domanda e offerta e magari stimoli nuovi livelli d’intervento.
Essere punti di riferimento per un’audience definita e affogare tutto il movimento che fai nella vita reale e in quella digitale, con la glassa dei tuoi talenti e dei tuoi tratti caratteriali più interessanti e marcati.
Occultare punti di debolezza e porre l’accento sui punti di forza.
Sapere raccontare in modo avvincente, credibile e motivante la tua storia individuale.
Tutto questo, e altro, è curare il proprio marchio personale.
Funziona. Ne sono certo per averlo visto produrre i risultati economici e di immagine che promette.
Tra le tante invenzioni e panacee che il mercato consulenziale è costretto a mettere insieme con i più disparati acronimi e termini perlopiù inglesi, questo funziona davvero e ci tengo a sottolinearlo.
Ma la piccola riflessione che vorrei tentare di fare con queste righe è una altra.
Corre veloce verso l’alto.
Richiede un salto di grande portata.
Un salto di coscienza.
Vediamo se riesco a spiegarmi.
Il mercato è un gioco, crudele e spietato, ma pur sempre un gioco.
Frutto di regole, a volte comprensibili, a volte meno.
In questo gioco noi siamo immersi totalmente e, per potere giocare adeguatamente, accettiamo che il gioco non sia un gioco, ma che sia la realtà data.
Non c’è nulla di male in sé, ma confondere un’attività umana, creata per produrre risultati materiali ed economici, con il senso dell’esistenza ha in sé i semi di un possibile disagio.
Un po’ come se Robert De Niro fosse ancora convinto di essere Travis Bickle, il ventiseienne alienato, depresso, tassista notturno di taxi Driver.
Noi, come donne e uomini, esistiamo al di là del mercato e dei mercati.
Esistevamo prima ed esisteremo poi, come genere, come specie.
Questi mercati sono una soluzione temporanea a un problema eterno per l'umanità.
Come sopravvivere materialmente in un ambiente più o meno difficile.
La soluzione attuale, il capitalismo e il libero sono estremamente produttivi per il benessere materiale e l’evoluzione e diffusione del benessere fisico della specie.
Permette potenzialemente anche a chi abita in Alaska o nel Sahara di vivere con dignità.
Come fa’ un termosifone o un condizionatore, alterano le condizioni date.
Ma come sempre accade per qualcosa di artificiale, serve adattare chi deve giocare in modo che giochi bene, mano a mano che la specializzazione cresce.
Come i cani da combattimento o i tori da corrida.
I canarini da competizione, i gladiatori o i cavalli da corsa.
Non vanno bene tutti.
I mercati, oltre ad essere conversazioni, sono invenzioni umane.
Il profilo dei giocatori anche.
Qui è il nodo.
Noi siamo qualcosa in più.
Siamo un passo più in là della nostra idea di noi stessi.
Siamo un grumo di pensiero ed emozioni capaci di ragionamenti ma soprattutto di sensazioni e sentimenti.
Siamo individui nati con una coscienza che permette di osservare il nostro pensiero.
E il pensiero è la radice del mondo che abbiamo creato.
Siamo potenzialmente dei creatori di realtà.
Ma a volte, spesso a dire la verità, dimentichiamo e confondiamo causa ed effetto.
Rovesciandoli.
Una via verso l’insoddisfazione, che ricordiamolo è il meccanismo chiave del gioco di mercato, è dimenticare che possiamo essere ciò che desideriamo.
A prescindere da ciò che noi o altri crediamo di essere.
Capisco che sia un po’ complicato.
Mi rispiego.
Tutto parte dal pensiero, l’idea di noi, dei giochi che vogliamo mettere in piedi, delle regole, dei meccanismi.
A volte, dimentichiamo che i creatori di questa realtà siamo noi.
La costruiamo a partire dai nostri ricordi, sensazioni, giudizi, conoscenze.
Ma è pur sempre solo una tra le innumerevoli possibilità.
Se domani decidessimo di essere felici con altre regole potremmo farlo.
Purtroppo ci scordiamo spesso di questo particolare e crediamo che il gioco, la realtà , le circostanze siano più reali di noi.
Siamo enormemente più grandi e potenti del gioco che abbiamo messo in piedi.
Come De Niro è enormememente più potenziale di Travis Bickle che è solo una delle facce che può assumere o non assumere.
Il Personal Branding è uno strumento per giocare meglio al gioco.
Non per sostituirsi alla nostra esistenza più alta.
Infondere la propria personalità nella competizione economica funziona in termini di risultato.
Punto.
Non soddisfa la voglia di crescita personale, di essere persone che volano più alte per comprendere quale sia il destino che ci attende meno dopo questo passaggio sul pianeta.
Da risposta alla domanda “ chi devo essere io per funzionare bene nel gioco?”.
Non dà risposte alla domanda “Chi sono io in realtà, al di la del mercato?”.
Visto che spesso mi ritrovo in aula a parlare di Personal Branding, devo marcare questo importante fatto.
Qualcuno fa confusione e si espone a un pericolo grande.
Di essere qualcosa che è solo una tra le mille possibilità e rimanerci incastrato per tutta la vita, in un impeto di costretta coerenza.
Drammatico.
Per cercare la felicità si devono affrontare le domande alte e poi, strumentalmente e sapendo che tutto è una commedia che sembra quasi reale, affrontare le domande più materiali.
Le prime riguardano lo spirito, l’anima, o qualunque nome si voglia dare a quel qualcosa che è prima di noi e delle nostre invenzioni.
Le seconde sono le domande che ci servono a vivere, portare a casa il pane, a mantenere i figli a scuola o ad andare in vacanza.
E’ importante non confondere i livelli e cercare di fare il meglio su ambedue.
Non siamo solo quello che vogliamo dimostrare sul mercato.
Lì si pratica una parte, si ricopre un ruolo.
Recitiamo pure, e bene, godendoci i frutti dell’agonismo di mercato.
Ma non fermiamoci li.
Abbiamo un avvenire più grande se solo alzeremo lo sguardo per vedere le infinite strade che possiamo disegnare senza l’aiuto delle regole.
Sebastiano Zanolli
 
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postato da  Claudio Maffei alle  12:17 | aggiungi commento | commenti presenti [0]



23 Mag 2017
Far diventare il cliente il nostro miglior venditore

Consideriamo i fatti.
Per quanto eccellenti siano le nostre campagne pubblicitarie o aggressive le nostre azioni di marketing le impressioni della gente sui nostri prodotti saranno basate, in larga misura, su quanto hanno sentito dire da altri. Questo, dopo tutto non sarebbe così tragico se potessimo condizionare quello che gli altri raccontano anzi sarebbe un canale meraviglioso.
Non solo è possibile dirigere la vox populi, ma la cosa è più semplice di quanto si possa immaginare.
Il passaparola è sempre esistito, ma i cambiamenti avvenuti negli ultimi 10 anni, soprattutto per quanto riguarda il potere assunto dai consumatori nel loro rapporto con le imprese e le evoluzioni nelle tecnologie di comunicazione, ne hanno amplificato più che mai l’importanza. Bisogna fare i conti con la perdita di efficacia della pubblicità e del marketing tradizionale strumenti che non stabiliscono dialogo ma che sono considerati dai consumatori troppo ripetitivi e invasivi.
Un altro concetto obsoleto è il concetto di target. Se c’è una caratteristica tipica di questi anni è l’estrema personalizzazione che rasenta l’individualismo. Possiamo dire che nel nostro Paese esistono 60milioni di target differenti. A tutto ciò si aggiunge la proliferazione dei siti web e dei social media che trasmettono opinioni di persone ad altre persone. Nascono così i fenomeni viral, buzz e il word of mouth.
Questi fenomeni nuovi fanno leva sul passaparola e sono le nuove forme di marketing non convenzionale che conquisteranno e contageranno i consumatori dei prossimi anni.
Il passaparola rappresenta una fonte imprescindibile di informazioni e un meccanismo di diffusione di messaggi ,accelerati dalle nuove tecnologie. E’ quindi importante attuare una forte strategia di personal brand, raggiungere e individuare le persone più influenti, studiare i processi di condivisione dei contenuti e creare le occasioni giuste affinché i nostri messaggi possano essere veicolati adeguatamente.
Ovviamente i concetti basilari dai quali è necessario partire sono quelli di qualità, innovazione e relazione. E’ estremamente importante soddisfare il cliente ed evitare come la peste episodi che alimentino il passaparola negativo. Infatti solo prodotti che superino le aspettative del clienti e abbiamo veramente qualcosa di eccezionale possono essere in grado di creare quel chiacchiericcio, quel consiglio da amico,
quel la condivisione che ci porterà a prosperare anche in un momento particolare come questo.
Un decalogo:
-Dovete avere un grande prodotto
-Per tre persone che parlano bene ce ne sono 33 che parlano male
-Attenti alle relazioni interne, ogni membro del personale è veicolo di passaparola
-Coltivate gli stakeholder
-Disinnescate i clienti arrabbiati
-Generare un passaparola positivo è frutto di atteggiamenti positivi
-Strabiliate i vostri clienti superandone le aspettative
-Create un vero e proprio piano di marketing del passaparola
-Semplificate il tutto e puntate all’azione
-Rendete le cose facili.
Claudio Maffei

 
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postato da  Claudio Maffei alle  16:33 | aggiungi commento | commenti presenti [0]



23 Apr 2017
Il giovane giocatore
Ho un aneddoto carino che ricordo sempre con piacere. Che non ha influito direttamente sul mio business, ma ha avuto un impatto comunque molto importante sul mio lavoro.
Diversi anni fa, un Giovane Giocatore di una delle squadre di calcio più importanti d’Italia presso la quale lavoravo, non perdeva occasione per lamentarsi, a microfoni spenti e non, del fatto di rimanere sempre in panchina, di non avere l’opportunità di giocare, dell’ingiustizia con la quale, a suo dire, era trattato dall’allenatore. Queste dichiarazioni gli creavano problemi con il Club, con l’allenatore e anche con il Grande Giocatore che occupava stabilmente il posto cui il Giovane Giocatore ambiva. La sua immagine era quella non solo di un giocatore poco significativo, ma anche di un personaggio scomodo, di una persona scontrosa e dal cattivo carattere. Anche i rapporti con i colleghi ne erano danneggiati.
Lo presi da parte e gli spiegai che se avesse continuato così, quello cui sarebbe andato incontro sarebbe stata la cessione alla fine della stagione. Cessione che, stante la situazione, avrebbe significato soltanto una cosa: “retrocedere” ad una squadra senza dubbio meno prestigiosa di quella dove era da poco arrivato. Gli prospettai anche un diverso approccio, sia concreto, per il suo vivere quotidiano con la squadra, sia di comunicazione. Da quel momento, avrebbe dovuto considerare l’esperienza che stava vivendo, non più come un’ingiustizia e una gabbia alle sue possibilità, ma al contrario come un’opportunità: quella di essere la riserva di uno dei più grandi campioni della storia del nostro calcio. Un’occasione per imparare e per farsi trovare preparato nel momento, che prima o poi sarebbe sicuramente arrivato, nel quale fosse toccato a lui scendere in campo per sostituire il Grande Giocatore. Dal punto di vista della comunicazione, gli suggerii di dimenticare le rivendicazioni e le frasi dure che aveva utilizzato fino ad allora, per passare a trasmettere anche all’esterno il suo nuovo modo di vivere la sua posizione di riserva del Grande Giocatore. Doveva cogliere ogni occasione per dire come si sentisse orgoglioso e fortunato a vivere quell’esperienza, lui così giovane, dietro ad uno dei più grandi.
E così fece. L’occasione fu un’intervista ad una rete televisiva nazionale. Il Giovane Panchinaro era diventato una Giovane Speranza, ottimista e carico di buona volontà. Ora dipendeva soltanto dall’allenatore saper cogliere e valorizzare queste qualità. La Società si accorse del cambiamento di atteggiamento e cominciò a valorizzarlo maggiormente, se non ancora in campo, perlomeno nelle attività di comunicazione, offrendogli delle opportunità che prima gli venivano negate. In poco tempo, anche a causa di un leggero infortunio del Grande Giocatore, il Giovane dovette dare dimostrazione delle sue capacità in campo. E si fece trovare preparato. Ormai, anche il suo modo di interagire con i media era cambiato: i musi lunghi, le rivendicazioni e le risposte a monosillabi erano un ricordo. E questo gli fu sicuramente determinante quando, finalmente, poté raccontare davanti ai microfoni la sua soddisfazione per le prestazioni sul campo di gioco e la sua ammirazione e riconoscenza per il Grande Giocatore “cui doveva tutto”. Dopo poco arrivò la chiamata in Nazionale, dove il Grande Giocatore da tempo non era più titolare, ma dove il Giovane Giocatore non sarebbe mai approdato senza quel cambiamento nel suo atteggiamento che aveva portato anche ad una diversa percezione che gli altri avevano di lui. Ecco, credo che questo esempio, che a volte utilizzo anche con i miei clienti, possa essere illuminante per far comprendere come un diverso approccio e un diverso modo di comunicare possa far cambiare nella sostanza le cose.
Barbara Ricci - Sport Wide Group
 
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postato da  Claudio Maffei alle  23:26 | aggiungi commento | commenti presenti [0]



23 Mar 2017
Giovanni Ferrero: "La mia Nutella non va in Borsa"
TORINO - Padrone o imprenditore? "Senza arroganza mi definisco un operatore sociale nel campo economico. Vorrei riuscire a diventare l'interprete di un capitalismo non rapace ma illuminato". Giovanni Ferrero, 50 anni, è il signor Nutella. Amministratore delegato unico del gruppo di Alba dal 2011 è oggi il principale esponente della famiglia che guida il terzo gruppo mondiale nel settore del cioccolato. A 11 anni è stato iscritto alla scuola europea di Bruxelles, in un periodo, gli anni '70, in cui molte famiglie italiane mandavano a studiare all'estero i figli per timore dei rapimenti. Ama la letteratura, ha scritto diversi romanzi ambientati in Africa. È sposato, ha due figli. Questa è la sua prima intervista dopo la scomparsa del padre Michele.
Lei si trova oggi fuori Italia. Dove si sta godendo le vacanze?
"Non sono in vacanza. Sono al lavoro, in questo momento in Lussemburgo".
L'imprenditore non va mai in vacanza, è così?
"Questo è un mito da sfatare. Io non credo che sia utile lavorare senza soluzione di continuità. Penso anzi che sia necessaria, ogni tanto, una sana cultura del distacco. Le pause servono a creare un po' di lontananza critica. Prendendo le distanze da quel che si fa, si finisce per lavorare meglio ".
Guardiamo con distacco il capitalismo italiano. Da metà Novecento a oggi è stato dominato dalle imprese di famiglia, come la sua. Ha ancora senso il modello del capitalismo familiare nel mondo globale?
"Premetto che per me esistono la buona e la cattiva imprenditoria, al di là dei vincoli di sangue. Poi, certo, le imprese basate su una famiglia hanno il grande vantaggio di poter pianificare le loro strategie nel lungo termine. A noi è capitato. Le visioni di una generazione vengono portate avanti dalla successiva, senza doversi preoccupare del risultato finanziario del prossimo trimestre, come invece accade alle società dominate dai fondi di investimento. Questo è un grande vantaggio".
Ci sono anche gli svantaggi?
"Certo e sono evidenti. Noi Ferrero siamo sempre attenti ad evitare quegli svantaggi. Il capitalismo familiare è spesso ombelicale, guarda al suo interno e non si proietta all'esterno. Va assolutamente evitato il rischio di dover disperdere il capitale per mettere d'accordo tutti in famiglia perché questo indebolisce le società con il risultato di avere un nanocapitalismo che considera il mondo esterno come un nemico dal quale difendersi. Questo atteggiamento è quello che spesso ha fatto deflagrare il capitalismo familiare italiano. Naturalmente e per fortuna ci sono esempi virtuosi che dimostrano come si possa evitare questa deriva".
Lei ha promesso di mantenere le tradizioni di famiglia in un gruppo mondiale che si avvia a fatturare 10 miliardi di euro l'anno. Ma ha anche annunciato che è ormai arrivato il momento di "superare le colonne d'Ercole", insomma di cambiare la pelle della Ferrero. Come?
"Il rapporto con l'Italia e con le radici di Alba rimarrà inalterato. Alba è il nostro sancta sanctorum, lì è cominciato tutto. Ma se vogliamo crescere non possiamo accontentarci di conservare l'esistente. Vale per noi come per altre aziende. Per svilupparci dobbiamo diventare più grandi, cercare alleanze, fusioni. Per crescere dobbiamo cercare il valore dove si sta creando, andare fuori dall'Europa. Le do due sole cifre: dieci anni fa le sette principali aziende del nostro settore rappresentavano insieme il 35% del fatturato. Oggi le prime cinque superano da sole il 60%. Le aziende si concentrano perché questo è l'unico modo per avere a disposizione i capitali necessari a svilupparsi. E si cresce fuori dall'Europa dove i mercati salgono, in media, del 15%".
Qual è l'alternativa?
"Difendere il fortino esistente, combattere contro la storia. Un'assurdità. Noi Ferrero non lo abbiamo fatto. Mio padre cominciò a investire in Francia negli anni Cinquanta quando tutte le società si accontentavano di sfruttare il boom economico italiano. Vide lontano. Oggi la Francia è il nostro mercato più forte".
Verremo dopo a una questione che riguarda la Francia. Nelle scorse settimane lei ha rotto un tabù: ha annunciato l'acquisto di una società del cioccolato, l'inglese Throntons, un'operazione da 157 milioni di euro. Ferrero comincia a comperare altre società dopo aver trascorso mezzo secolo a crescere da sola. A che punto è l'operazione?
"Siamo quasi al 75 per cento di adesione all'offerta amichevole di acquisto. Questo significa che tra poco potremo togliere la società dal listino della Borsa, come annunciato. Siamo molto soddisfatti per le opportunità di crescita che l'acquisto di Thorntons ci offre sul mercato inglese".
Ecco, il tabù della Borsa resiste. Mai la Ferrero in un listino?
"Fino a qualche anno fa quotarsi presentava rischi e opportunità".
Sembra il modo più veloce per raccogliere capitali, non crede?
"Certo. Ma noi abbiamo le risorse necessarie a finanziare la nostra crescita da soli. E oggi andare in Borsa è più rischioso di qualche tempo fa per la pressione dei rappresentanti dei fondi di investimento nelle società quotate".
Dunque mai in un listino?
"Oggi non ne abbiamo bisogno. Se un giorno si ponesse il problema come conseguenza della partnership con una grande società, forse allora non ci potremmo più permettere il lusso di rifiutare la Borsa. Ma oggi non è un'ipotesi realistica".
La Ferrero è ancora una società italiana?
"Siamo orgogliosi di essere considerati uno dei fiori all'occhiello dell'Italia. Noi in verità siamo da tempo una società europea, l'Italia rappresenta il 17% del nostro fatturato. In prospettiva, diciamo entro i prossimi cinque anni, pensiamo di diventare una società mondiale che realizza fuori dall'Europa il 51% del fatturato".
Lei da giovane non ha dovuto risolvere il problema. Ma che cosa consiglierebbe ai ragazzi italiani che cercano un lavoro?
"Penso che la disoccupazione dei ragazzi sia la più grande negatività sociale dell'Europa e dell'Italia. Ammiro le riforme che sta portando avanti il governo italiano e questo mi lascia ben sperare. Consiglierei ai ragazzi di non lasciarsi spegnere le speranze: chi riesce a vincere in questo momento difficile è più forte delle generazioni che lo hanno preceduto".
Torniamo alla Francia. Ségolène Royal ha invitato a non mangiare più la Nutella per combattere la deforestazione legata al consumo di olio di palma. Come risponde?
"Innanzitutto noi siamo tra le aziende che hanno fatto di più sulla tracciabilità dei prodotti e nel rapporto con le popolazioni delle località di produzione. Abbiamo un welfare che estendiamo il più possibile ai nostri collaboratori nei paesi di produzione delle materie prime".
Queste scelte eviteranno la deforestazione per utilizzare l'olio di palma negli alimenti?
"Con le conoscenze scientifiche di oggi possiamo limitare la deforestazione, non eliminarla. Il potere nutritivo dell'olio di palma è sette volte superiore a quello di altri oli e la popolazione mondiale sottonutrita è di 850 milioni di persone".
Dunque che cosa risponde al ministro Royal?
"Che la sua caduta di stile mi ha un po'stupito. Pensavo che fosse una nostra affezionata cliente. Ci sono molte foto di famiglia che la ritraggono con un barattolo di Nutella in mezzo alla tavola. In ogni caso noi continueremo a fare tutto il possibile per rendere il mondo migliore e più dolce di come lo abbiamo trovato".
PAOLO GRISERI
 
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postato da  Claudio Maffei alle  22:28 | aggiungi commento | commenti presenti [0]



23 Feb 2017
Ho visitato una scuola svizzera. E sono rimasto sconvolto
Nelle scorse settimane mi è capitato di visitare una scuola secondaria di secondo grado svizzera. Un’esperienza sconvolgente.
Intanto ad accompagnarmi nel tardo pomeriggio di un giorno festivo è stata una professoressa perché lì tutti i docenti possono entrare a qualsiasi ora del giorno e della notte: con una chiave elettronica l’amica docente ha aperto ogni porta, da quella d’ingresso a quella del laboratorio d’arte a quella della mensa.
La prima tappa è stata l’aula insegnanti: un’accogliente stanza con divani, poltrone, quotidiani, riviste, una bacheca con gli appuntamenti culturali della città e della scuola, un angolo cottura e una scrivania con tanto di personal computer per ogni professore. “Prepariamo qui le nostre lezioni. Questo è un luogo dove possiamo studiare, formarci, scambiarci materiale e informazioni”, mi ha spiegato la collega elvetica.
Per loro c’è anche una mensa gestita insieme a quella dei ragazzi: tavoli e sedie comode, un self service all’avanguardia, un’illuminazione moderna e per chi non vuole spendere c’è una sala con dei forni a disposizione per riscaldare il cibo portato da casa.
Senza parlare del teatro, moderno, attrezzato e dell’elegante emeroteca con inclusa una ludoteca aperta ai ragazzi e gestita da un’addetta che si prodiga per trovare sempre nuove proposte per i giovani studenti. Il tutto in un contesto pensato e progettato non certo dal tecnico comunale o dall’amico del sindaco ma dall’architetto Santiago Calatrava che ha pensato questo spazio in funzione dei ragazzi. Insomma una scuola che nasce per essere uno spazio educativo e non un antico palazzo trasformato in edificio scolastico.
Senza parlare delle aule e del laboratorio d’arte attrezzato come se fosse l’Accademia. Ma la cosa che più mi ha stupito è stata quella di non trovare un cuore, un “Ti amo”, un Marco + Eva o una qualsiasi altra incisione “rupestre” sulle sedie, sopra o sotto il tavolo, sul muro.
Ad un certo punto ho chiesto alla mia amica di portarmi nei bagni. Almeno lì ero certo che avrei trovato una scritta: ho pensato che finalmente liberi dall’oppressione dei docenti svizzeri, nel segreto del cesso, i giovani svizzeri sarebbero stati uguali agli adolescenti italiani. Delusione: non una sola incisione. Nulla.
A quel punto ho iniziato a farmi qualche domanda: perché in Italia dalla scuola “media” alle superiori non c’è un solo banco o cesso senza scritte? Perché i nostri ragazzi non sentono “loro” la scuola dove trascorrono la maggior parte del tempo? Che accadrebbe se anche in Italia ogni insegnante avesse le chiavi per entrare a scuola quando vuole? Perché nel nostro Paese le scuole sono vecchie, insicure, pericolose e a poche centinaia di chilometri da Milano sono progettate da architetti all’avanguardia? Quanto conta la scuola per gli svizzeri e quanto per gli italiani? Eppure noi abbiamo la “Buona Scuola”.
di Alex Corlazzoli - IlFattoQuotidiano.it
 
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postato da  Claudio Maffei alle  22:49 | aggiungi commento | commenti presenti [0]



23 Gen 2017
Le regole limitano la tua libertà

Un giorno, in aula, stavo parlando di Paul Watzlawick, il grande maestro della comunicazione che ho avuto la fortuna di conoscere.
Riportai una sua frase che mi aveva molto colpito “Ognuno di noi costruisce ciò che poi subisce”. Un allievo alzò la mano e disse: sarebbe affascinante approfondire questo concetto, a che cosa si riferisce precisamente? E’ il “subisce” che mi lascia perplesso, perché l’uso di un termine così negativo?
Allora spiegai il mio approccio che è più bio-chimico che psicologico.
I pensieri che facciamo influiscono sulle sensazioni che proviamo, che a loro volta agiscono sulla chimica del nostro cervello e del nostro corpo. Ci rinchiudiamo all’interno dei limiti della nostra stessa mente, limiti che sono costituiti dalle nostre convinzioni, dai nostri pensieri e dalle nostre sensazioni.
Ho fatto molti corsi con Richard Bandler e lui spiega molto bene questa cosa.
Richard dice di non aver mai lavorato né per la terapia, né per il business. Ho lavorato, dice, solo per la libertà. Prende ad esempio gli schizofrenici che hanno un modello del mondo limitato e si arrabbiano se le persone non si adeguano al loro modello del mondo.
E’ strano ma molte persone pensano che sia più importante avere ragione che essere felici.
Questo è pazzesco!
L’unica cosa importante è essere in grado di uscire dal proprio modello del mondo. Quando diamo eccessivo potere alle nostre convinzioni queste convinzioni possono farci soffrire.
Un esempio classico sono le persone metodiche. Queste persone sono le più esposte alla sofferenza.
Dovremmo tutti smettere di credere alle nostre convinzioni negative.
Il modo ideale per superare questo gap è ridere delle cose che ci fanno star male. Ma chi sa veramente usare l’autoironia?
I peggiori che ho incontrato, in questo senso sono i “precisini” e i “capi”: sono troppo analitici, vogliono avere il controllo di tutto e così stanno male. Ho incontrato grandi capi di multinazionali che, dopo avermi chiamato con lo scopo di per far lavorare meglio le loro aziende, mi hanno spiegato meticolosamente quello che avrei dovuto fare. Questo avviene perché sono abituati a comandare.
Gli insegnanti, spesso, sono troppo impegnati a dare i voti e si dimenticano di insegnare nuove possibilità.
Anche i medici sono troppo impegnati a fare delle diagnosi, a dare dei nomi alle cose che affliggono le persone, per poi dar loro delle medicine per curarsi.
Hai questo…zac…devi prendere questo.
Gli psicologi invece pensano che gli uomini siano molto complicati. Invece sono mooolto semplici!
La necessità spesso è la madre della capacità e della creatività.
Ogni giorno incontro persone che mi dicono: cosa pagherei per parlare bene l’inglese! In Brasile, a Salvador de Bahia, ho incontrato un bambino che sapeva cinque lingue e gli ho chiesto: Come le hai imparate? Le ho imparate per chiedere soldi! Semplice no?
Richard Bandler dunque insegna alle persone a essere “libere”. Il contrario di essere “libero” non è essere “prigioniero” ma è essere “ostinato”. Le persone ostinate sono come gli schizofrenici.
Tutto, anche loro stessi, deve funzionare secondo la loro mappa del mondo.
Einstein ha cambiato le leggi dell’universo perché quando era bambino e a scuola gli dicevano: “queste sono le regole dell’universo”, lui diceva: bah… può darsi… ma io non ci credo!
Quando una persona è diversa bisogna insegnargli le cose in modo diverso. La cosa peggiore è etichettare le persone. Etichettare è fare una diagnosi. Nessuno è qualcosa. Perché “è” è statico, e così non puoi cambiarlo. E’ paranoico, è schizofrenico.
Bisogna dimenticare le regole, i modelli limitanti. Provare cose nuove è forse la cosa più bella che possiamo fare. Ma le nostre convinzioni spesso ci impediscono di farlo.
Il fatto che uno provi paura anche solo immaginando di trovarsi di fronte a un serpente significa che la paura non ha nulla a che vedere con il serpente, ma sta solo nel cervello della persona.
Le nostre convinzioni limitanti ci mettono addosso un sacco di stupide paure che diventano vere e proprie catene che ci rendono prigionieri. Le uniche paure “naturali” sono la paura di cadere (del vuoto) e quella dei rumori forti. Tutte le altre ci sono state indotte e sono solo nella nostra mappa o modello del mondo.
 
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postato da  Claudio Maffei alle  18:43 | aggiungi commento | commenti presenti [0]



8 Dic 2016
Parlarsi nell'era digitale
Anna ha 12 anni, litiga con un compagno di scuola, Luis, e posta su Facebook «spero proprio che Luis finisca come suo padre». Che si era appena suicidato. Il preside si infuria e la convoca per metterla di fronte alla gravità del gesto. Ma Anna sembra non rendersi conto: «Era solo su Facebook!». Il preside capisce che la ragazza non considera il suo gesto completamente reale. Come se gli altri, pensati via Facebook, non fossero del tutto umani. Luis era diventato un oggetto bidimensionale, una faccina sullo schermo incapace di soffrire davvero. Sì, Anna era stata crudele, ma di una crudeltà passeggera e senza importanza.

Studiosa al confine tra psicologia e sociologia, Sherry Turkle insegna al MIT di Boston ed è un’esperta di digital culture. Decine di storie come quella di Anna e Luis, tutte raccolte personalmente sul campo, le hanno permesso di scrivere un libro importante che argomenta bene la tesi che vuole dimostrare: il trionfo delle tecnologie comunicative ha aumentato i nostri scambi ma ha ridotto le nostre conversazioni. Con ripercussioni profonde e durature: meno conversazione = meno empatia = meno introspezione = meno conoscenza. Non solo, la connessione continua impedisce l’esperienza della solitudine. E quindi della creatività.

Stiamo cambiando. Una mutazione al tempo stesso impercettibile e evidente, come quella del clima. La «fuga dalla conversazione» mette in pericolo il concetto di relazione come lo abbiamo sempre concepito e vissuto. Nel dizionario inglese è entrato un nuovo termine: phubbing (da phone e snubbing), cioè trascurare chi sta di fronte a noi per dedicarsi al proprio smartphone. Con buona pace di Emmanuel Lévinas, il filosofo che afferma che è la presenza di un volto a sollecitare la creazione di un patto etico.

Espansione continua dell’altrove digitale, la vita come distrazione dal telefono. Cene silenziose, tutta l’attenzione rivolta agli smartphone. Relazioni che nascono e muoiono con un messaggio. Tablet che custodiscono i nostri segreti ma basta una distrazione e si trasformano in smoking guns dei tradimenti. Amicizie senza abbracci, confinate in text di pochi caratteri. Coppie che scelgono di litigare solo via email per evitare le reazioni a caldo. I costi della fuga dalla conversazione iniziano a vedersi ovunque: in politica, nella vita privata, in quella scolastica. Parlando dei suoi alunni, un’insegnante dice: «se per caso condividono qualcosa, quel qualcosa si trova immancabilmente sui loro cellulari». Tra loro non si guardano, ma tutti guardano lo schermo.

Sherry Turkle non è una luddista piena di nostalgia, semmai un’antropologa del cyber-spazio. Il suo messaggio non è «spegnete gli smartphone». Semmai «accendete la conversazione» e ricordate che la comunicazione chiede corpo e attenzione. Silenziare il cellulare mentre qualcuno ci parla è un gesto d’amicizia. E quando non desideri controllare le email in presenza dell’altro, forse ti sei innamorato.

Il libro è piaciuto a Jonathan Franzen, che lo ha recensito sul New York Times scrivendo che il suo fascino sta «nell’evocazione di un’epoca, non molto lontana, in cui la conversazione, la privacy, la complessità delle discussioni non erano beni di lusso». Pagina dopo pagina, Reclaiming conversation, questo il titolo originale, aumenta le nostre preoccupazioni. Ma lancia anche una sfida: dimostrare a noi stessi e a chi ci sta attorno che una regolazione è possibile. Le addiction sono nocive: se abbiamo regolato l’uso delle sigarette, perché non dovremmo regolare anche quello di tablet e smartphone?
La legge del contrappasso può diventare anche la terapia: «la sola cura per le connessioni fallimentari del nostro mondo digitale – scrive Turkle – è parlare.
Vittorio Lingiardi
 
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23 Nov 2016
Il vento freddo della creatività
Ho letto un paio di articoli dove ci si chiede se gli smartphone possono spegnere la creatività delle persone. Soprattutto quando se ne fa un uso eccessivo. In realtà si parte dal presupposto che la creatività sia qualcosa che appartiene a tutti, persino una dote innata. Quasi un diritto. E questa ossessione per la creatività ha generato come un vento freddo che poggia sulle terre calde del web. Nessuno può più sfuggire all’obbligo creativo, al dovere di raccontare. E chi non ha una storia, un qualcosa da dire, un qualcosa che piaccia è meglio che se la trovi al più presto. Perché la povertà creativa è diventato un disvalore, un segno intollerabile del vivere contemporaneo, del comunicare sul web e sui social.
Dovremo fare i conti con la dittatura della creatività. Schiavi di un nuovo glamour, diventiamo tutti potenziali narratori cinematografici, autori di romanzi e poesie, compositori di musica, cesellatori di buone storie, in grado di raccontare, di vedere sempre un plot dove spesso non esiste, di saper trovare gli intrecci e le grandezze ovunque si nascondano.
La dittatura della creatività è un problema molto serio. Non esistono più esistenze che non ambiscano a qualcosa che le evolva, le riscatti dalla quotidianità. Non esistono più luoghi normali, come tanti, paesaggi simili tra loro, nonni, nonne e zii all’incirca uguali per tutti. Non ci sono più lettere di famiglia che sono soltanto lettere, e che si conservano per affetto senza neppure andarle a rileggere. Ormai non ci sono racconti privati, storie tramandate, persino piccole leggende, che non diventino cose per gli altri, che non siano esportabili nel senso tecnologico del termine: ovvero cambiandogli il formato in modo che siano leggibili in un altrove indistinto. Persino i filmini della recita dei figli, abilmente manipolati, possono diventare ritratto, affresco, vicenda privata che ha qualcosa di collettivo, microstoria rivelatrice.
È come un vento che sta mettendo una generazione di fronte alla frustrazione di non essere abbastanza narrativa, di non essere del tutto creativa. Le storie corrono per il mondo e bisogna afferrarle, capirle, ripensarle: quelle di ogni giorno come quelle antiche, che possono diventare un libro, un racconto lungo, un documentario.
La dimensione privata del ricordo è diventata un affare emotivo, narcisistico, affettivo, esibizionista. Ogni gesto della propria vita, ogni pensiero, ogni fotografia, ogni video è vissuto non per essere condiviso, ma per diventare un mosaico narrativo, uno storytelling di esistenze semplici, normali, che non sono più capaci di restare in quella normalità, in quel privato che è sempre stato di tutti. Si sono rovesciati i propri cassetti dentro il web, per mostrarsi nudi, indifesi, fragili di fronte ad altri nudi, indifesi e fragili. E non si riesce più a ritrovare una dimensione privata dell’esistenza.
Non tutto serve a diventare storia, non tutto si può mostrare come fosse un patrimonio collettivo. Non c’è bisogno di costellare il proprio tempo quotidiano di note continue che aggiungono, mostrano, spiegano, narrano. E questa dittatura della creatività è diventata una disperazione, una sorta di antifrasi concettuale: diamo un significato opposto a tutto quello che è di fronte a noi, come un tic nervoso. Obblighiamo le nuove generazioni a pensarsi creative ma solo a parole. Perché poi quando cercano di esserlo davvero vengono dissuase. Abbiamo trasformato l’arte, la letteratura, il cinema, la musica e tutte le espressioni dell’ingegno in qualcosa di necessario e al tempo stesso di non realizzabile se non in una forma ripetitiva e banale. Abbiamo legato la creatività al successo dei like, che finiscono per modificare, in corsa, la qualità delle opere, delle storie, attraverso un sondaggio continuo, un costante aggiustamento – spesso verso il basso – delle proprie intenzioni e volontà.
La creatività obbligatoria è come un vento freddo, sottile e tagliente, ghiaccia il paesaggio e paralizza le coscienze. Mescolando plauso e indifferenza come fossero la stessa cosa.
Roberto Cotroneo
 
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23 Ott 2016
Ascoltare non è condividere
In tutte le culture millenarie, e soprattutto nella maggior parte delle religioni, l’ascolto è un elemento fondante. L’ascolto è saggezza, l’ascolto è comprensione, alle volte è assoluzione o condanna, ma è sempre un punto di condivisione tra due persone singole, o tra un singolo e la collettività. Si ascoltano i figli, le persone che si amano, si ascoltano le comunità, i cittadini. Si chiede, si valuta, si decide dopo aver ascoltato, e non soltanto le ragioni o delle tesi ma anche qualcosa che viene prima di tutto questo: l’essenza del vivere.
Mettersi in ascolto è mettersi in cammino, regalare un luogo dove rifugiarsi, trovare conforto: ascoltano i confessori, gli psicoanalisti, i saggi.
Ascoltare non è necessariamente condividere, non è un modo per farsi approvare, per avere successo, per vincere con le proprie ragioni. Nell’ascolto non si vince e non si perde, non è un combattimento, non è consenso o dissenso, non è adesione o indifferenza. Nell’ascolto e nel farsi ascoltare il voler avere ragione, il voler colpire, impressionare, risultare popolari agli altri, serve a poco. Perché mettersi in ascolto è percorrere una strada di solitudine e di diversità che ci può isolare, renderci eccentrici.
L’ascolto è un karma, in un certo senso; parola sanscrita delle "upanisad" vediche che ormai è utilizzata nel linguaggio corrente per indicare all’incirca il destino, la predisposizione a qualcosa. Il karma è un agire nel mondo che porta al ciclo di morte e di rinascita del "samsara". Da come si agisce, come sanno ormai in molti, si avranno delle conseguenze, e il ciclo di morte e rinascita non è uguale per tutti, dipende da come si agisce, dalla capacità di sentire e di essere nel mondo; dal modo di ascoltarlo, in un certo senso, se intendiamo l’ascolto una delle modalità dell’agire, una modalità più evoluta.
Ma la modernità alle volte è fatalmente invasiva. Semplificare è molto bello, quando si riescono a spiegare concetti complessi con linearità, rendendoli fruibili a molti. Ma banalizzare non è semplificare, e soprattutto ci sono forme di banalizzazione pericolose. Da poco tempo esiste un nuovo social network, si chiama: Maadly. Non sarebbe una notizia se non avesse un aspetto particolare. Non mette in comunicazione persone che si conoscono, o addirittura amici, ma soltanto ed esclusivamente non conoscenti. Questi sconosciuti della rete leggono i tuoi post e i tuoi contenuti e possono mettere un “Like” o un “Dislike”. A ogni like sale il karma dell’utente (proprio così, è utilizzato questo concetto). A ogni dislike il karma scende.
Invenzione carina e persino originale quella di farsi giudicare da una massa di sconosciuti che possono determinare il tuo Karma. Se hai successo salirà e tu non ti reincarnerai in un insetto o in un verme, ma in un altro essere umano. Se invece non riesci a essere popolare la ruota del "samsara" girerà malissimo per te.
È difficile prevedere il successo, tra i ragazzi soprattutto, di questa applicazione che è già scaricabile sui dispositivi mobili. La banalizzazione del Karma non sarebbe un grande problema. Da anni lo fanno le dottrine New Age e ci siamo abituati. La cosa invece piuttosto grave è che si mette assieme il piacere, il successo, l’essere approvati, come fosse un percorso spirituale e di crescita. Il successo, per intenderci, l’esser popolari, l’avere molti like non è un cammino spirituale, non dovrebbe essere considerato un punto di arrivo. L’ambizione non è qualcosa di auspicabile in sé. La ragione e l’approvazione del mondo non sono valori, anzi alle volte sono dei disvalori.
Bertold Brecht scriveva: «ci sedemmo dalla parte del torto visto che tutti gli altri posti erano occupati». Insegnare il coraggio di raccogliere molti dislike, farsi ascoltare per quello che si è veramente, e non per riscuotere assenso e successo è il modo migliore per prendersi cura del proprio karma.
Rocco Cotroneo - Corriere della Sera
 
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23 Set 2016
Mi do il permesso
"Mi do il permesso di non essere una vittima
Mi do il permesso di separarmi da persone che mi trattano bruscamente, con violenza, che mi ignorano, che mi negano un saluto, un bacio, un abbraccio…
Da questo preciso momento le persone brusche o violente sono fuori dalla mia vita.
Mi do il permesso di non costringermi ad essere “l’anima della festa”, la persona che mette entusiasmo in tutto o quella sempre disponibile al dialogo per risolvere conflitti quando gli altri nemmeno ci provano.
Mi do il permesso di non intrattenere ed incoraggiare gli altri a costo di stancarmi io: non sono nato per spingerli ad essere sempre al mio fianco.
La mia esistenza, il mio essere è già prezioso.
Se vogliono stare al mio fianco devono imparare a valorizzarmi.
Mi do il permesso di lasciar svanire le paure che mi hanno inculcato da bambino. Il mondo non è soltanto ostilità, inganno o aggressione. Ci sono anche tanta bellezza e gioia inesplorata.
Mi do il permesso di non stancarmi nel tentativo di essere perfetto. Non sono nato per essere la vittima di nessuno. Non sono perfetto, nessuno è perfetto e mi permetto di rifiutare gli schemi altrui: un uomo senza difetti, estremamente impeccabile ovvero disumano.
Mi permetto di non vivere nell’attesa di una telefonata, di una parola gentile o di un gesto di considerazione. Mi affermo come persona che non dipende dalla sofferenza. Non aspetto rinchiuso in casa e non dipendo da altre persone. Sono io stesso a valorizzarmi, mi accetto e mi apprezzo.
Mi permetto di non voler sapere tutto, per non essere sempre presente durante il giorno. Non ho bisogno di molte informazioni, di programmi per il pc, di film al cinema, di giornali, di musica.
Mi do il permesso di essere immune alle lodi o agli elogi smisurati: le persone che fanno troppi complimenti finiscono per sembrare opprimenti. Mi permetto di vivere con leggerezza, senza accuse o richieste eccessive. Non fa per me.
Mi do il permesso più importante di tutti, quello di essere autentico.
Non mi sforzo di compiacere gli altri. È semplice e liberatorio abituarsi a dire di no ogni tanto.
Non mi voglio giustificare: se sono felice, lo sono, se non sono felice, non lo sono. Se un giorno del calendario è considerato come quello in cui sentirsi obbligatoriamente felici, io mi sentirò esattamente come mi sentirò.
Mi permetto di sentirmi bene con me stesso e non come vogliono le usanze o quelli che mi stanno attorno: quello che è “normale” o “anormale” nei mie stati emotivi sarò io a deciderlo"
JOAQUÍN ARGENTE
 
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