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6 Dic 2011
Capirsi con il cuore
Tu come hai fatto a capire che quella è la strada per te, il modo in cui giocarti la tua intera vita?».
Così mi ha scritto una ragazza di 16 anni, dopo aver finito di leggere «Cose che nessuno sa», mentre stavo scrivendo questo articolo.

Si può morire restando vivi. Si muore in molti modi e il più diffuso è quello della solitudine causata dall’assenza di possibilità di raccontare la propria storia, unica e irripetibile, a qualcuno. Amiamo e vogliamo essere amati perché ci sia almeno un interlocutore a cui poterla raccontare questa nostra benedetta vita così grande e fragile. Alcuni giovani muoiono da vivi, per assenza di racconto. Il mondo che dovrebbe ascoltare le loro vite, quello degli adulti, giudica la loro tela assurda, prima ancora che tratti e colori di quella storia si siano potuti dispiegare.
Si muore giovani, e non perché cari agli dei, ma perché disprezzati da loro. Non per una guerra cruenta, ma per mancanza di sguardo: una vocazione, una unicità, per essere ha bisogno di essere percepita.

La gioia di vivere - mi hanno insegnato i miei genitori e maestri - non dipende dal successo, ma dal fatto di occupare il proprio posto nel mondo, nella fedeltà a quello che siamo chiamati a essere e fare, sulla base dei nostri talenti e dei nostri limiti, la conoscenza dei quali ha il suo spazio privilegiato nell’infanzia, nell’adolescenza e nella prima giovinezza. Ciascuno di noi è la propria vocazione, la propria chiamata, il proprio compito. Sul tempio di Apollo a Delfi c’era scritto «Conosci te stesso». Da lì prese le mosse il pensiero occidentale ed è lì che bisogna guardare per questa crisi che è prima ancora che economica, una crisi di senso e di identità.

Eraclito disse che il carattere dell’uomo è il suo destino. Platone immaginò nel mito di Er che un «dàimon» ci affiancasse, perché il destino di ciascuno si compisse. Tutti sappiamo che qualcosa ci chiama a percorrere un certo cammino. Magari non si tratta di un annuncio eclatante, ma di piccole spinte (un libro, un film, un incontro, un fatto...) verso una strada, mentre eravamo persi in una selva di vie possibili. Ognuno di noi è irripetibile e la libertà, diceva Hannah Arendt, è «esserci per un nuovo inizio»: a ciascuno di noi è affidato il proprio sé come inizio, compito e compimento. Solo questo genera gioia di vivere: armatura forte di fronte ai fallimenti, spada che consente di non rifugiarsi, impauriti dalla vita, in autismi virtuali ed emotivi (dipendenze di ogni tipo).

Quando un adolescente cerca di spiegare la propria strada, senza rendersene conto porta la mano al cuore, come se intuisse il mistero di sé. È uno dei momenti del mio mestiere di insegnante che amo di più: quando si «accorano», si attorcigliano attorno al proprio cuore per ascoltarlo e spesso accade quando sono ascoltati. Sarà proprio la scoperta di questa unicità, percepita, preservata, ricordata, difesa da chi ci ama a dare senso al quotidiano vivere, anzi proprio a quel ripetitivo copione darà brillantezza e novità. Questo vale in ogni epoca e in ogni congiuntura storica, anche e soprattutto le crisi, durante le quali si è costretti ad andare all’essenziale. Questo ai giovani non può e non deve essere tolto: la bellezza che alberga nell’unicità di ciascuno ha bisogno di ricevere uno spazio, un riconoscimento, per non morire. Questo spazio è la famiglia, questo spazio è la scuola.

I ragazzi chiedono ogni giorno questo riconoscimento. Hanno nostalgia di uno sguardo che riconosca la loro unicità, che non giudichi e inscatoli la loro vita prima ancora di averla accettata nel suo straordinario, scomposto, contraddittorio emergere, che è già segno di ricerca. Questo mi chiedono ogni giorno: «Aiutami ad essere me stesso». I giovani di oggi hanno questa fame, io lo vedo, ma questa fame di sé, questa fame di destino, questa fame di futuro è stordita dalla sazietà del benessere. Se non ho fame di futuro il mio presente sparisce. E ha un sogno solo chi si ferma a considerare i mezzi che ha per attuarlo. Ma se invece di conoscermi sonnecchio per riuscire a digerire l’eccesso di portate di cui vengo ingozzato, sarà tardivo e brusco il risveglio: chi sono io e che ci faccio qui?

Se so chi sono e che ci faccio qui è perché a 16 anni ho trovato chi mi aiutasse a unire i pezzi ancora sconnessi del puzzle della mia vita e a percepirmi come compito da realizzare. A 16 anni ho deciso di diventare insegnante perché avevo un insegnante che amava non solo ciò che insegnava, ma amava la mia vita con la sua irripetibilità. A 16 anni ho deciso che volevo dedicare la vita ai ragazzi perché il professore di religione della mia scuola, padre Puglisi, si lasciò ammazzare per provare a cambiare le cose.

A 16 anni i miei genitori mi hanno messo alla prova, e io che li mandavo a quel paese come ogni adolescente, in realtà toccavo la reale consistenza dei miei sogni. Questi mentori mi hanno insegnato che non è il successo il criterio per essere sé stessi, ma che essere se stessi è il successo. Molti ragazzi rimangono paralizzati all’idea che non riusciranno a realizzare i loro sogni e questo è il veleno di una società che lavora per produrre, comprare e consumare, anziché lavorare per costruire un tempo buono e ampio per appartenersi e appartenere attraverso relazioni e amicizie vere.

Se il criterio di giudizio dell’agire è il successo, si rimane prigionieri di un destino crudele, che può schiacciare prima ancora di mettersi in movimento. Invece ciò che rende felici è realizzare la propria vocazione, indipendentemente dal riconoscimento «della folla». Si può avere successo come madre, come insegnante, come panettiere. Basta essere pienamente ciò a cui si è chiamati.

È la crisi ad aver rubato ai giovani il futuro? No. La crisi farà venire più fame, costringerà a non accontentarsi del benessere per essere felici. Il futuro ai giovani lo rubano gli adulti che non li guardano, gli adulti che occupano i posti di potere e se ne fregano del bene comune, gli adulti che fanno diga per l’ingresso di nuove leve negli ambienti di lavoro, gli adulti che non sono disposti a mettersi al servizio della generazione successiva passando il testimone. Come tanti Crono se ne stanno seduti a digerire i figli che loro stessi hanno messo al mondo.

I sistemi educativi dovrebbero riconsiderare le loro priorità. Cominciamo a credere nella unicità delle vite che ci sono affidate, serviamole togliendo qualcosa al nostro egoismo. La cena con i figli è più importante di una pratica di lavoro sbrigata la sera tardi, una moglie stanca dopo una giornata infernale è più importante di una partita di calcio in tv, un alunno è più del suo 4 o del suo 8...

Dalla famiglia e dalla scuola si può ripartire: non si richiedono riforme strutturali, ma riforme del cuore e della testa. In famiglia e a scuola ho imparato a occuparmi degli altri e a non pensare di essere il centro del mondo. In famiglia e a scuola ho scoperto la mia vocazione.
Lo aveva già scritto in pochi versi Dante quando il suo maestro, Brunetto Latini, gli disse: «Se tu segui tua stella/ non puoi fallire a glorïoso porto/ se ben m’accorsi ne la vita bella/ e s’io non fossi sì per tempo morto/ veggendo il cielo a te così benigno/ dato t’avrei a l’opera conforto».
Alessandro D'Avenia La Stampa
 
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postato da  Claudio Maffei alle  19:01 | aggiungi commento | commenti presenti [1]



28 Nov 2011
Io e McCartney: quando Paul studiava con me
C' era una volta Paul McCartney, seduto da solo a tu per tu con me, a 50 centimetri di distanza, come mi capita tutti i giorni con i miei familiari o gli amici intimi, ma mai e poi mai, avrei pensato fino a quel momento, con una delle poche vere leggende viventi del nostro tempo. E invece era lui, in carne e ossa, quell' aria da eterno ragazzino che da decenni il mondo conosce e idolatra. L' ex Beatle che stasera suonerà al Forum di Assago. Siamo nel 2003: l' azienda per cui lavoravo allora, la Telecom, ho organizzato due concerti di McCartney al Colosseo. Un' iniziativa improba, con complicazioni immani; ma finalmente, quella sera di maggio, siamo lì, pronti. Lui è caricatissimo; lo abbiamo capito durante la prova suono, un lungo esercizio dove ha suonato classici come Lady Madonna o All My Loving . In pochi fortunati, abbiamo assistito dietro le quinte, colpiti dalla padronanza assoluta con cui governa la scena: chiede «chi» controlla «cosa», gli basta uno sguardo per assemblare ogni dettaglio Il primo concerto si tiene il sabato alle 9 e mezza. Tre quarti d' ora prima mi dicono che sir Paul ha bisogno di una mano per alcune traduzioni; chiedono se posso mandargli qualcuno. Non ho il minimo dubbio: «Vengo io», dico, e con mia moglie e mio figlio veniamo introdotti nella grande tenda da campo allestita per il backstage, arredata in stile orientale: tappeti alle pareti, come arazzi, fiori, frutta, vini pregiati. C' è da aspettare; ci sediamo in una specie di salotto dove troviamo un tipo da solo che ci saluta amabile, ci versa da bere e chiacchiera di quello che capita. Solo dopo una ventina di minuti realizzo che stiamo parlando con Bob Geldof. Quando «Macca» mi manda a chiamare, all' inizio del concerto mancano ormai soltanto dieci minuti. Lui è seduto in un camerino austero, solo, concentratissimo. La T-shirt arancione spicca sui divani bianchi. Non ci sono convenevoli; ho appena il tempo di notare la sua pelle un po' troppo tirata. «Devo dire alcune frasi in italiano - spiega -, ho bisogno di una traduzione e di sapere come si pronunciano correttamente». Mi siedo al suo fianco, cominciamo. «Welcome to Rome», legge da un foglio di grande formato. Traduco, e lui trascrive con un pennarello su un altro grande foglio, con la grafia inglese; poi legge l' italiano a voce alta. Naturalmente la pronuncia è approssimativa: lo correggo. Ripete; e ancora, e ancora, e ancora. Si ferma solo quando approvo. Sono stupefatto. Sto con un signore che ha cambiato il mondo con le sue canzoni, che potrebbe tranquillamente rivolgersi al pubblico in inglese, e invece vuole esprimersi nella mia lingua, e per di più senza errori. Per farlo, accetta di essere corretto come uno scolaretto delle elementari: un' umiltà e un perfezionismo che mi dicono come si diventa un Beatle più di mille trattati. Le frasi si succedono; sono tutte piuttosto banali, semplici da tradurre, ma riguardano i suoi affetti principali: Linda e Heather, John, George... è come passare in rassegna la sua vita: «Al mio amico George piaceva suonare l' ukulele, per presentare Something ; «Questa è per Linda», e così via. Guardo l' orologio; non oso dirglielo, ma siamo ben oltre l' orario di inizio. Procediamo imperterriti: «Ho scritto questa canzone dopo la morte di John». «Cerca di dire canzone, non cansone», insisto. Questo è più difficile: la riproviamo almeno dieci volte. Dall' inizio dell' incontro è passata una mezz' ora. Il congedo è velocissimo: ormai il ritardo rischia di diventare eccessivo. «Com' è andata, che tipo è?», incalzano i miei amici all' uscita. «È stata un' incredibile lezione di metodologia», rispondo. Non ho mai cambiato idea.
Andrea Kerbaker - Corsera
 
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postato da  Claudio Maffei alle  18:15 | aggiungi commento | commenti presenti [0]



21 Nov 2011
Le due anfore
Ogni giorno un contadino portava l’acqua dalla sorgente al villaggio in due grosse anfore che legava sulla groppa dell’asino, che gli trotterellava accanto. Una delle anfore, vecchia e piena di fessure, durante il viaggio, perdeva acqua. L’altra, nuova e perfetta, conservava tutto il contenuto senza perderne neppure una goccia. L’anfora vecchia e screpolata si sentiva umiliata e inutile, tanto più che l’anfora nuova non perdeva l’occasione di far notare la sua perfezione:” Non perdo neanche una stilla d’acqua, io!”. Un mattino, la vecchia anfora si confidò con il padrone: “Lo sai, sono cosciente dei miei limiti. Sprechi tempo, fatica e soldi per colpa mia. Quando arriviamo al villaggio io sono mezza vuota. Perdona la mia debolezza e le mie ferite”. Il giorno dopo, durante il viaggio, il padrone si rivolse all’anfora screpolata e le disse: “Guarda il bordo della strada”. “E’ bellissimo, pieno di fiori”. “Solo grazie a te” disse il padrone. “Sei tu che ogni giorno innaffi il bordo della strada. Io ho comprato un pacchetto di semi di fiori e li ho seminati lungo la strada, e senza saperlo e senza volerlo, tu li innaffi ogni giorno”.
 
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postato da  Claudio Maffei alle  18:21 | aggiungi commento | commenti presenti [0]



11 Nov 2011
Federica Ghetti e la cultura di un'impresa alternativa
“Non prendersela più del necessario e vivere la vita con intensità e gioia.” E’ questo il messaggio di Federica Ghetti, creatrice del sito www.managerzen.it ,nato “per stimolare il cambiamento culturale verso il gioco, l’etica, la passione, l’umanità: propone nuove scenari, ipotesi di organizzazione, sviluppo personale, tentativo di unire oriente e occidente, profit e no profit, vita e lavoro in un unico grande meraviglioso pasticcio”.

Chi è Federica Ghetti?

Che domandona! Limitandoci ad aspetti biografici: femmina, anno 66, cavallo fuoco per l’oroscopo cinese, romagnola doc, una laurea in ingegneria elettronica, un compagno di vita e lavoro e al momento tanti gatti.

Come è nato il sito Managerzen?

Cercavo un luogo sulla rete dove trovare persone legate al mondo delle aziende (manager, professionisti) ma con una visione “alternativa” open-mind. Non l’ho trovato e ho pensato di farlo.

Ti sei ispirata a qualcuno o a qualcosa?

Certamente. In primo luogo a Jacopo Fo e al suo Zen Occidentale, al punto che all’inizio in molti pensavano che ManagerZen fosse un’associazione fondata da lui! Uno degli obiettivi, in effetti, è stato fin dall’inizio quello di contaminare il mondo aziendale con le suggestioni e gli stimoli che raccoglievo, frequentando la Libera Università di Alcatraz, ma non solo. Determinante è stato anche l’ “Ozio creativo” di Domenico De Masi. Nel 2000 ho letto il libro “il futuro del lavoro” che parla della società post-industriale e ho capito che non solo era possibile portare certi argomenti ai manager, ma era anche necessario.

Di cosa ti occupi precisamente?

Il portale managerzen.it è nato con l’obiettivo di diffondere appunto una cultura di impresa alternativa: etica, umana e creativa in contrapposizione a quella dominante, basata ancora sulla gerarchia e sull’ impostazione della fabbrica. E’ andato online a giugno 2001 precedendo di poco, il punto di svolta segnato dall’attacco alle torri gemelle. Ancora mi ricordo la sensazione di sfida che si provava a mettere insieme le parole “etica” e “business” quasi fosse un’assurdità.

Abbiamo segnalato i primi convegni in Italia sulla responsabilità sociale d’impresa e le prime letture alternative per manager come “Funky Business” … Ora lo scenario è cambiato e almeno a parole questa cultura e questo approccio, sono diventati molto diffusi (un po’ di meno nella pratica all’interno delle aziende). Adesso quindi il nostro ruolo è quello di “selezionare” tra le tante iniziative e attività quelle che ci sembrano degne di nota, le esperienze più significative, le persone che stanno facendo la differenza. Direi che per chi ci segue e ci conosce siamo un punto di riferimento per la cultura emergente, grazie alla buona credibilità di cui godiamo mantenuta negli anni.

Oltre ad occuparti del sito Managerzen, svolgi altre attività?

ManagerZen oltre al portale è un’Associazione Culturale fondata nel 2003 che unisce 500 soci in tutta Italia e di cui sono Presidente. Nel 2006 abbiamo avviato un srl per rispondere a richieste di aziende per progetti formativi, eventi e attività outdoor che trasmettessero i nostri valori. E infine, nel 2010 è nato ManagerZen Lab, una proposta di workshop e laboratori interaziendali che teniamo presso la sede di Rimini. In tutto questo, ho un ruolo organizzativo e personalmente sono trainer di Creatività applicata: una materia che adoro veramente!

Cosa ti ha avvicinato alla filosofia orientale?

Un viaggio in Birmania e Laos nel 1996. La pace che provavo nei templi buddisti era qualcosa di totalmente nuovo per me e inaspettato e al rientro è partito il mio percorso di ricerca.

“Stare dentro e trasformare ciò che ci sta intorno”, ci si riesce davvero?

In effetti è molto difficile e non sempre possibile. Ma l’invito è quello di crederci e provarci. Ci sono ambienti fertili e ricettivi laddove non ce lo aspettiamo, altri purtroppo aridi, che richiedono tempo e un lungo lavoro che non sempre vogliamo e possiamo fare. E’ una semina e ognuno di noi può fare un pezzettino.

Quanto ti ha aiutata la filosofia Zen nella vita di tutti i giorni?

La cosa che mi aiuta di più è una “fede” interiore, indipendentemente da tutto e da tutti e la grande risata del maestro zen quando scopre la verità.

Quanto riesci, nella tua vita quotidiana, a mettere in pratica la tua filosofia di vita?

Nella gestione del tempo non ci riesco ancora, alla fine mi faccio travolgere e la velocità prende il posto della lentezza. Ogni giorno, invece, metto in pratica la “sincronicità”: l’attenzione particolare ai segnali e alle coincidenze, rendo importanza all’intenzione nel fare le cose, la capacità di stare nel “flusso” e la creatività… of course.

Ci sono nuovi progetti in cantiere?

Il portale va completamente rifatto! Ormai ha 5 anni che per internet è un secolo.

Cosa dici a te stessa nei momenti difficili?

“Oggi il cielo è nero, ma ricordati che le nuvole passano”.

Che messaggio vorresti trasmettere a chi ti sta intorno?

Non prendersela più del necessario e di vivere la vita con intensità e gioia.

Chi ti è vicino, viene influenzato dal tuo modo di vivere?

Non saprei, vivo e lavoro circondata di persone che condividono una certa filosofia di vita.

Chi ha creduto in te, principalmente?

All’inizio sicuramente il mio ex fidanzato Raffaele: è stato lui a registrare il sito managerzen.it a trovarmi il primo sponsor e a dirmi e “adesso lo fai!”. Da allora ha sempre seguito e supportato l’evoluzione del progetto. E’ scomparso a giugno di quest’anno, aveva solo 45 anni: pensiamo di dedicare un premio alla sua memoria.

Da bambina dicevi “da grande farò”…

L’insegnante di educazione fisica..

Botta & Risposta

Citazione preferita: “Mi contraddico? Ebbene sì. Mi contraddico. Sono vasto, contengo moltitudini” Walt Whitman

Il viaggio che vorresti fare: Un mese tra i villaggi, sud est asiatico. Auroville

Ciò che non faresti mai: “Mai” e “sempre” non mi piacciono (mai dire mai) … in ogni caso per questa vita non farei sport estremi.

Cosa ti fa più paura? Perdere Dio

L’oggetto a cui sei più legata: L’elastico per i capelli

Il primo pensiero al mattino: “C’è il sole?”

Tre aggettivi per definirti: Idealista, semplice, testarda

Prima di partire per un viaggio: Immagino, esploro, checklist

Libro sul comodino: “Dovuto alla natura” Brian Goodwin

Personaggio storico: Leonardo da Vinci

Lintervista.it
 
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postato da  Claudio Maffei alle  18:29 | aggiungi commento | commenti presenti [0]



4 Nov 2011
Breve lezione sulla libertà
Vogliamo parlare della libertà e del suo esercizio. L’esercizio della libertà consiste nella capacità di assumere innanzitutto la cura di se stessi, di scegliere, di prendere delle decisioni e di restarvi fedeli.
Decidere significa leggere la realtà con il pensiero per interpretare, valutare, stabilire connessioni distinguere, astrarre. L’atto della decisione non può essere lasciato agli altri ma neanche all’impulso del momento o all’emozione. Esige l’esercizio della riflessione e del discernimento, solo così potremo evitare il rischio in cui oggi è facile incorrere di restare degli eterni indecisi, che si bloccano con una infinita serie di possibilità senza alcun aut aut che costringa a scegliere e conduca così ciascuno a dare forma precisa e personale alla propria umanità. Lo sappiamo bene, anche decidere è un’operazione dolorosa perché comporta dire dei no, tralasciare delle possibilità, comporta rinunce, riconoscere che il tutto non è alla nostra portata e che i limiti sono l’alveo al cui interno soltanto può avvenire la nostra libertà. Ma chiunque opera delle scelte significative per la propria vita, scegliere un certo tipo di scuola, un certo lavoro, un modo di vivere non lo fa pensando agli infiniti no, ad altre scuole ad altri lavori ad altri modi di vivere che di fatto dice, ma solo al sì che lo porta a privilegiare una cosa rispetto ad altre e qui occorre ricordare che la libertà non è mancanza di vincoli ma è sempre libertà all’interno di legami e di limiti. La libertà non coincide con ciò che è più facile o immediato ma esige una disciplina, un ordine. L’uomo libero è colui che sa determinarsi in modo libero a certe azioni e che rispetta sempre la libertà degli altri. Può forse sembrare difficile tutto questo, ma è il modo con cui si può fare della vita un capolavoro, un’opera d’arte rifuggendo la tentazione del nichilismo, del ripiegamento su di sé, della cultura della sopravvivenza senza alcuna progettualità. Questo lavoro è umano, umanissimo e attende tutti noi, ne dipende la nostra felicità, il nostro futuro ma anche la nostra capacità di vivere in armonia con gli altri.
Enzo Bianchi religioso e scrittore, fondatore e priore della comunità monastica di Bose.
 
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postato da  Claudio Maffei alle  19:25 | aggiungi commento | commenti presenti [0]



27 Ott 2011
I nuovi confini delle PR
Ricevuta ieri, in agenzia

Gentile XY,

la ringrazio molto a nome della redazione per l'attenzione riservataci e per la gentile segnalazione.

Purtroppo la divulgazione di comunicati stampa, benché servizio gratuito, è tuttavia riservato alle aziende inserzioniste.

Con una adesione di soli € xx annuali l’azienda potrebbe pubblicare tutti i prodotti, in italiano e in multilingue, sui 3 portali del nostro network, con la divulgazione gratuita per tutto l’anno, e senza limite di numero, di tutti i redazionali che il suo ufficio stampa riesce a segnalarci.

Questa comunicazione non ha bisogno di commenti. Tristezza infinita!
Teresa Martini
 
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postato da  Claudio Maffei alle  18:56 | aggiungi commento | commenti presenti [0]



25 Ott 2011
Burocratichese
A proposito di semplificazione, leggo sulla lettera di accompagnamento al formulario del censimento: "A tale proposito la informo che, mentre i dati censuari potranno essere diffusi, privi degli indicativi diretti, anche con la frequenza inferiore alle tre unità, ciò non si applica ai dati di natura sensibile" E' scritto su 15 milioni di formulari. Capiranno tutti?
Peter Lorenzi
 
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postato da  Claudio Maffei alle  19:37 | aggiungi commento | commenti presenti [0]



15 Ott 2011
Le 15 citazioni più significative di Steve Jobs
1- "Se non hai ancora trovato ciò che cerchi, continua a cercare. Non ti sedere. Come per tutti gli altri problemi del mondo, tu saprai come e quando trovarlo. E come in ogni vera relazione, migliorerà ogni anno che passa."

2 - "Quando avevo 17 anni lessi una citazione: ‘Se vivi ogni giorno come se fosse l'ultimo, arriverà il giorno in cui avrai certamente ragione'.
Mi impressionò molto e da allora, per i successivi 33 anni, ogni mattina mi sono guardato allo specchio chiedendomi: ‘Se oggi fosse l'ultimo giorno della mia vita, vorrei passarlo come sto per passarlo?'. E se la risposta era ‘no' per troppi giorni di fila, sapevo che bisognava cambiare qualcosa."

3 - "Non abbiamo la possibilità di fare molte cose nella vita. Ognuna di queste dovrebbe essere davvero eccellente. Perché è la nostra vita."

4 - "Ricordarsi che dobbiamo inevitabilmente morire è il miglior modo che conosco per evitare la trappola di credere che abbiamo qualcosa da perdere."

5 - "Non è possibile unire i puntini guardando avanti, potete unirli solo girandovi e guardando indietro. Quindi dovete avere fiducia nel fatto che in futuro i puntini in qualche modo si uniranno. Dovete credere in qualcosa, il vostro intuito, il destino, la vita, il karma, qualunque cosa. Questo tipo di approccio non mi ha mai lasciato a piedi e ha sempre fatto la differenza nella mia vita."

6 - "Il Design non è solo come appare esteticamente. Il design è come funziona"

7 - "Voglio lasciare un segno nell'universo"

8 - "Nessuno vuole morire. Anche le persone che aspirano al Paradiso non vogliono morire per andarci . Eppure la morte è la cosa che ci accomuna tutti quanti. Nessuno può sfuggirle. Ed è giusto che sia così perché la Morte è molto probabilmente la sola e migliore invenzione della Vita. È l'agente di cambiamento della vita. Spazza via il vecchio per far posto al nuovo. Oggi il nuovo siete voi, ma un giorno non troppo lontano diventerete gradualmente il vecchio e sarete spazzati via. Mi dispiace essere così drammatico, ma è la pura verità."

9 - "Essere il più ricco uomo del cimitero non mi interessa. Andare a letto ogni sera pensando di aver fatto qualcosa di meraviglioso, questo mi interessa."

10 - "Non puoi solo chiedere alle gente cosa vuole e cercare di darglielo. Nel tempo che impieghi per crearlo vorrà già qualcos'altro."

11 - "Il mio modello di business sono i Beatles. Erano quattro ragazzi che tenevano a bada vicendevolmente le proprie tendenze negative, si bilanciavano. E il risultato era più grandioso della somma delle parti."

12 - "È stato uno dei miei mantra, concentrazione su una sola cosa e semplicità. La semplicità può essere più difficile della complessità: devi lavorare duro per ripulire il tuo pensiero e renderlo semplice. Ma alla fine paga, perché una volta che ci riesci puoi spostare le montagne."

13 - "Sono convinto che quello che distingue le imprese di successo da quelle che il successo non lo raggiungono è solo pura perseveranza."

14 - "Il tempo a nostra disposizione è limitato, quindi non bisogna sprecarlo vivendo la vita di altri. Non farti intrappolare dal dogma di vivere grazie al risultato del pensiero altrui. Non lasciare che il rumore delle opinioni degli altri soffochino la tua voce interiore. E, soprattutto, abbi il coraggio di seguire il tuo cuore e il tuo intuito. Loro in qualche modo sanno già cosa vuoi diventare davvero. Tutto il resto è secondario."

15 - "Siate affamati, siate folli".
 
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postato da  Claudio Maffei alle  16:22 | aggiungi commento | commenti presenti [0]



5 Ott 2011
Il giardiniere
Un giorno, il responsabile degli acquisti di una importante azienda stipula un contratto di fornitura con un giardiniere indipendente. Ma, quando se lo vede davanti, capisce che si tratta di un ragazzo molto giovane e gli viene il dubbio che possa avere poca esperienza.

“Va bene lo stesso - si dice però il dirigente - tanto vale che provi a vedere come lavora.”

Quando, il primo giorno, il ragazzo termina il lavoro in giardino, va dal cliente e gli chiede di poter usare il telefono. Dopo qualche minuto, per caso, il responsabile degli acquisti riesce a cogliere l’ultima parte della conversazione.

Il ragazzo è al telefono con una signora:

“Ha bisogno di un giardiniere?”
“No, ne ho già uno.”
“Ma io, oltre a sistemare il giardino, pulisco tutto e mi faccio carico dello smaltimento dei rifiuti” – insiste il ragazzo.
“E’ normale, anche il mio giardiniere lo fa”, risponde la signora.
“Io tengo in ordine li attrezzi, li lucido perfettamente, dopo aver terminato il lavoro”, aggiunge il giovane.
“Anche il mio giardiniere lo fa”, ribatte la donna, un po’ infastidita.

Nell’ultimo tentativo di convincere la propria interlocutrice, il ragazzo rilancia:
“Sono svelto, non arrivo mai in ritardo e le mie tariffe sono imbattibili!”.

“Spiacente, ma anche il prezzo del mio giardiniere è competitivo”, risponde la donna prima di riattaccare.

“Mio caro ragazzo, credo proprio che tu abbia perso una cliente”, dice allora il responsabile degli acquisti.

“Naturalmente no, sono io il suo giardiniere! L’ho chiamata solo per verificare se è davvero soddisfatta del mio servizio.”
 
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postato da  Claudio Maffei alle  13:16 | aggiungi commento | commenti presenti [0]



29 Set 2011
I ragazzi più ottimisti sono più in salute
Gli adolescenti ottimisti hanno meno probabilità di incorrere in diversi problemi di salute, tra cui la depressione: è quanto emerge da uno studio pubblicato su Pediatrics dai ricercatori dell'Università di Melbourne e del Royal Children's Hospital, in Australia, guidati da George Patton. La ricerca è stata condotta su più di 5.634 ragazzi australiani tra i 12 e i 14 anni.
I ragazzi sono stati intervistati circa il loro modo di pensare, classificato in base a 4 livelli di ottimismo, da "basso" a "molto elevato": ed è emerso che mentre solo il 15% dei ragazzi con il più alto livello di ottimismo ha fatto registrare segni di depressione lieve, tra gli adolescenti con livelli di ottimismo "molto bassi" le percentuali registrate sono state del 59% tra i ragazzi e del 76% tra le ragazze.
Dei ragazzi sono stati esaminati tutti gli eventi traumatici patiti nel corso della vita - come lutti o separazioni - e il gruppo dei 5.634 è risultato piuttosto omogeneo: forse, spiegano i ricercatori, l'ottimismo può essere "insegnato", e quindi è anche dal contesto sociale e dall'educazione familiare che potrebbe dipendere la predisposizione all'ottimismo. "Non sappiamo perché alcuni ragazzi siano più ottimisti rispetto ad altri, è come se l'ottimismo possa essere insegnato", spiega Patton.
 
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