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14 Mar 2012
McLuhan aveva torto. Nei discorsi dei politici serve più sostanza
«Abbiamo avuto anni di SpotPolitik in Italia, di politica da spot. Almeno dieci. E negli ultimi cinque è stata sempre più invasiva, fastidiosa, pesante». Lo scrive Giovanna Cosenza, studiosa di semiotica all' Università di Bologna, autrice appunto del saggio SpotPolitik (pagine 208, 12) per Laterza: «È la politica - continua - che imita il peggio di ciò che fanno certe aziende italiane con la pubblicità. Quella che pensa che per comunicare basta scegliersi uno slogan generico, due colori per il logo e qualche foto per le affissioni. Quella che riduce la comunicazione a uno spot televisivo, appunto». Come se comunicare, soprattutto con i cittadini, fosse solo una questione di estetica superficiale e scelta grafica. O di cerone per andare in tv. Molti, specie a sinistra, identificano questa comunicazione politica con il berlusconismo. E non c' è dubbio che nel 1994 Berlusconi fu il primo a introdurre anche da noi una commistione fra sistema politico, media, marketing e pubblicità. Negli Stati Uniti questa mescolanza c' era già almeno dalla metà del Novecento. La politica spettacolarizzata e personalizzata non è solo prerogativa italiana, accomuna tutte le democrazie «mature», in diverse dosi e varianti nazionali. Il punto è che la «mutazione» italiana ha qualcosa di specifico: si è quasi completamente staccata dalla realtà dei contenuti. Un po' alla volta tutti i partiti sono stati contagiati. Dal linguaggio volutamente colloquiale di Pier Luigi Bersani a quello «poetico» di Nichi Vendola, si arriva dritti al disastro della corsa dei neutrini nel traforo appenninico (sic) dell' ex ministro dell' Istruzione, Mariastella Gelmini. E a una politica fatta di talk show litigiosi, slogan vacui, gestacci e volgarità. Non che le tecniche di comunicazione non contino. Contano naturalmente. Ma come è scoppiata la bolla speculativa, l' andazzo degli Stati di vivere a debito, dovrà cambiare per forza di cose anche la politica da spot. Giovanna Cosenza sembra ribaltare, di fatto, l' assunto del sociologo dei media e guru della tv Marshall McLuhan. In politica, e non solo, il contenuto (non il mezzo) è il messaggio. Un prodotto scadente, del resto, non sfonda neppure al supermercato. Il packaging (il modo di confezionare un prodotto) influenza le vendite, ma, al dunque, non si può arrivare a trovare «sotto il vestito niente». Una «cattiva politica» porta a una «cattiva comunicazione». E una comunicazione complessivamente «malata» e autoreferenziale, alla fine, ha contribuito a far crollare «la casta» nell' opinione degli italiani. La studiosa fa un paragone con il linguaggio del primo mese di governo di Mario Monti, il libro ne fa un primo bilancio. L' ormai famosa «sobrietà» (nonostante qualche scivolata, proprio da spot, come quella del posto fisso «noioso») costituisce una controprova del fatto che la comunicazione non è solo «un artificio», e che gli «studios» non possono sostituire il valore di ciò che si dice, propone, chiede. Con un' avvertenza: la cattiva comunicazione politica può tornare. Perché, secondo la studiosa, affonda le radici nella «cultura» e nella sociologia del Paese e in questo senso è autenticamente «bipartisan». P.S. Questo termine (declinato nelle più diverse sfumature) sarà il prossimo «spot». Pochi giorni fa, un comunicato stampa ha invitato i giornalisti a un convegno «bipartisan» sulla chirurgia dell' anca!
Maria Antonietta Calabrò - Corsera
 
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5 Mar 2012
Come funziona la finanza
E' una giornata uggiosa in una piccola cittadina, piove e le strade sono deserte.
I tempi sono grami, tutti hanno debiti e vivono spartanamente.
Un giorno arriva un turista tedesco e si ferma in un piccolo alberghetto.
Dice al proprietario che vorrebbe vedere le camere e che forse si ferma per il pernottamento e mette sul bancone della ricezione una banconota da 100 euro come cauzione.
Il proprietario gli consegna alcune chiavi per la visione delle camere.

1. Quando il turista sale le scale, l'albergatore prende la banconota, corre dal suo vicino, il macellaio, e salda i suoi debiti.
2. Il macellaio prende i 100 euro e corre dal contadino per pagare il suo debito.
3. Il contadino prende i 100 euro e corre a pagare la fattura presso la Cooperativa agricola.
4. Qui il responsabile prende i 100 euro e corre alla bettola e paga la fattura delle sue consumazioni.
5. L'oste consegna la banconota ad una prostituta seduta al bancone del bar e salda così il suo debito per le prestazioni ricevute a credito.
6. La prostituta corre con i 100 euro all'albergo e salda il conto per l'affitto della camera per lavorare.
7. L'albergatore rimette i 100 euro sul bancone della ricezione.

In quel momento il turista scende le scale, riprende i suoi soldi e se ne va dicendo che non gli piacciono le camere e lascia la città.

- Nessuno ha prodotto qualcosa
- Nessuno ha guadagnato qualcosa
- Tutti hanno liquidato i propri debiti e guardano al futuro con maggiore ottimismo
;-)
 
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postato da  Claudio Maffei alle  18:12 | aggiungi commento | commenti presenti [0]



2 Mar 2012
LUCIO DALLA: la nostra colonna sonora

La magia della grande musica si scopre quando i grandi cantanti se ne vanno. Ieri milioni di italiani hanno ripercorso in un attimo la propria vita con la colonna sonora di Lucio Dalla, così come avevano fatto alla morte dell’altro Lucio nazionale. Caro amico ti scrivo che nel centro di Bologna non si perde neanche un bambino e se è una femmina si chiamerà Futura…

Ci sono cascato anch’io ed è stato facile, oltre che bellissimo. Il mio Dalla non è quello che avrei conosciuto di persona in anni recenti, e con il quale ho presentato libri, riso, scherzato, persino polemizzato. Il mio Dalla è la notte prima degli esami. Estate 1979, vigilia della maturità, Dalla e De Gregori in concerto con «Banana Republic» allo stadio Comunale di Torino, davanti a casa mia. Durante il giorno coi miei compagni avevamo studiato in cucinino, dove per un curioso gioco di rimbombi si potevano sentire le prove dei musicisti: sembrava che il sax di Dalla fosse in cortile. Ho il ricordo nettissimo di noi che interrompiamo una poesia del Leopardi per affacciarci al balcone e lasciarci trasportare da un suo assolo di jazz. La sera i compagni telefonarono alle mamme per dire che si sarebbero fermati da me a ripassare. Invece andammo allo stadio, confusi fra altri settantamila, ma col cuore che ballava di paura per il giudizio imminente e dei biglietti particolarmente meschini.

Eravamo nel settore più lontano dal palco e ancora non esistevano i maxischermi: De Gregori era un puntino, Dalla la metà di un puntino. Ma appena abbracciava il sax e ci soffiava dentro si trasformava in un gigante.

E poi, e soprattutto, c’erano le sue canzoni sparate nella notte: «Com’è profondo il mare», «Piazza grande», «Stella di mare» («Tuuuu come me», e quell’uuu gli usciva dalla cassa toracica come un’orchestra di cento elementi), «L’anno che verrà». Le sapevo tutte a memoria, a differenza delle poesie del Leopardi. Quando partì «Cosa sarà» («che ci fa morire a vent’anni anche se vivi fino a cento») guardai il cielo sopra lo stadio e giurai alle stelle che non sarei mai stato un ventenne morto, anzi, avrei fatto di tutto per diventare un centenario vivo. Quella frase cantata a squarciagola alla vigilia dell’esame di maturità segnò a tal punto la mia formazione che il giorno in cui, da adulto, conobbi De Gregori gli dissi che era la più bella che avesse mai scritto. De Gregori concordò sulla bellezza della canzone e aggiunse con un sorriso che purtroppo non era sua, ma di Ron e Lucio: lui l’aveva solo cantata. È stato uno dei momenti più imbarazzanti della mia vita e anche questo lo devo a Dalla.

Chi non lo ha già fatto ieri, può provarci adesso con me. Raccontarsi la vita in un minuto, attraverso le sue canzoni. «4 marzo 1943» (era l’unico cantante di cui tutti sapevamo la data di nascita) e mi rivedo bambino triste e solo davanti alla tv in bianco e nero che trasmette il festival di Sanremo. «Disperato erotico stomp» accompagnò i primi viaggi individuali al centro del sesso, con quella mano che «partiva» e non si sapeva mai bene dove ci avrebbe portato. «Anna e Marco», uno dei lenti-cardine dell’adolescenza, l’importante era tenersi stretti alla ragazza fino a quando Dalla diceva «Anna avrebbe voluto morire, Marco voleva andarsene lontano»: a quel punto si poteva tentare l’affondo. «Balla balla ballerino» e ogni volta che la cantavo mi veniva da piangere, persino adesso, chissà perché. «Futura» vantava un posto d’onore nella Definitiva, la C90 verde in cui avevo condensato le canzoni da infilare nell’autoradio, quando a bordo saliva una certa persona. E ancora un vecchio album, «Il giorno aveva cinque teste», difficile e bellissimo, da ascoltare nei momenti duri, quelli che servono a crescere. «Caruso» è un bagno di notte, un bacio sotto la luna, uno spaghetto divorato sul mare. Chiuderei con «Attenti al lupo», che a trent’anni mi salvò da un principio di depressione: non ho più trovato una canzone capace di trasmettermi tanta incomprensibile allegria.

Pensavo che questo genere di ricordi non potesse estendersi ai più giovani. Poi verso sera mi è arrivata la mail di una ragazza, si chiama Francesca. «Sto piangendo come una fontana per Lucio Dalla. Mi sento come se fosse morto un vecchio amico. Lui sicuramente non sapeva chi fossi. È ovvio. Credo che questo genere di rapporti emotivi a distanza siderale si possa creare solo con i musicisti. Che tu sia triste, felice, stanca, sola, in compagnia, quando loro cantano hai l’impressione che vogliano tirarti su il morale, partecipare alla tua gioia, cullarti prima che tu dorma, farti compagnia. Ti sembra che parlino proprio con te. Magari esagero, ma per me è stato così. Mi mancherà molto». Anche a me.
Massimo Gramellini - La stampa
 
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postato da  Claudio Maffei alle  18:48 | aggiungi commento | commenti presenti [0]



1 Mar 2012
Cinque regole per vivere meglio nell’era 2.0
Prendendo spunto dagli articoli proposti dal New York Times nella rubrica Your brain on Computers, che propongono una visione distopica del rapporto tra essere umano e il computer e suggeriscono come unica soluzione per curare l’internet-addiction l’abbandono totale dei social network, Alexandra Samuel nel suo articolo prova ad indicare una nuova via d’uscita da questo problema, partendo dal presupposto che Internet è una realtà anzi, come lei stessa afferma Internet è una realtà incurabile.

La giornalista individua una strada migliore per scappare dai ritmi forsennati e dal frastuono di internet ed evitare di scegliere la via, davvero impraticabile ai giorni nostri, dell’abbandono totale del web, proponendo The new unplugging, una filosofia basata su cinque regole fondamentali.

Possiamo stare tranquilli, ci rassicura Samuel, The new unplugging non vi richiede di chiudere Facebook o di buttare via l’I-Phone!

1. Unplug from distraction: di solito, sottolinea la giornalista, quando siamo al computer siamo distratti, molto spesso infatti usiamo contemporaneamente più schermi alla volta: quello del telefono, quello del computer e a volte sullo stesso schermo abbiamo molte finestre aperte o applicazioni che ci rubano energie di continuo e si bevono letteralmente la nostra attenzione. I consigli in questo caso sono pochi e semplici ma molto efficaci: scollegatevi dalla distrazione concentrandovi su un unico schermo, spegnete il cellulare, chiudete la porta, chiudete tutte le finestre e le apps che deviano la vostra attenzione.

2. Unplug from FOMO: FOMO è un acronimo che in inglese sta per Fear Of Missing Out , si tratta di una nevrosi che è cresciuta drammaticamente ai tempi di Facebook. La paura di perdersi un evento, una conferenza, una festa, un concerto, secondo Alexandra Samuel si può sconfiggere accettando il fatto che non si può essere ovunque e fare qualsiasi cosa. Ma per chi proprio non riuscisse a concepire ed accettare questa verità, un’altra soluzione potrebbe essere cliccare il tasto “hide” sugli aggiornamenti di Facebook di tutti quegli amici che amano vantarsi delle loro attività on-line.

3. Unplug from disconnection: Ironia della sorte, proprio la nostra vita da eternamente-connessi a volte ci fa sentire meno connessi con le persone che amiamo, con la nostra famiglia ad esempio. Una soluzione per le famiglie e gli amici che vogliono trovare una propria dimensione on-line, può essere quella proposta da Grechten Rubin nel libro Il progetto della felicità l’autrice sostiene che ogni coppia e ogni famiglia per essere felice dovrebbe avere un video gioco con cui giocare tutti insieme, un sito o un blog on-line ed un social network attraverso il quale restare connessi.

4. Unplug from information overload: il sovraccarico di informazioni è un’altra patologia che affligge l’uomo nell’era di internet, molto spesso chi ne è colpito sceglie di praticare quello che Alexandra Samuel definisce il digiuno digitale. Questi digiuni però hanno un effetto devastante sulla working-life, dunque, anche in tal caso la via di uscita non può essere abbandonare internet, bensì creare una rete di amici e colleghi fidati che possano aiutarci a trovare una via di realizzazione ogni giorno e concentrarsi esclusivamente su ciò che più ci interessa.

5. Unplug from the shallows: infine, per non cadere nelle secche della rete, quelle che Nick Carr definisce The shallows, basta semplicemente focalizzarsi quando siamo on-line su attività che creano significati per noi e per gli altri, sui nostri interessi, sulle nostre passioni o perché no, come ricorda Alexandra Samuel, sulla nostra fede religiosa.

Concludendo con le parole della giornalista: Internet è una condizione incurabile del nostro tempo, ma questa non può essere considerata una buona notizia fino a quando non troveremo una via per curare i vari dolori e fastidi della vita online.

Tratto da The Atlantic Mobile
 
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postato da  Claudio Maffei alle  18:22 | aggiungi commento | commenti presenti [0]



23 Feb 2012
14 ricette per il giornalismo
Con notevole stupore, e altrettanto piacere, noto che molti giovani italiani sognano di diventare giornalisti. I master di giornalismo - oggi la strada maestra verso il mestiere – sono pieni di ragazze e ragazzi determinati e preparati (più di noi trent’anni fa), che si dimostrano lungimiranti. Non guardano infatti al momento difficile dell’industria, ma alle opportunità e ai nuovi strumenti del mestiere, cui internet ha regalato una terza giovinezza (la prima arrivò col giornale a stampa, la seconda con la televisione).


I futuri colleghi, spesso, chiedono suggerimenti. Ho già offerto, in passato, incoscienti decaloghi; oggi ci riprovo, e allungo. Non stupitevi: chi invecchia ama dare buoni consigli per consolarsi di non poter più dare cattivi esempi (de la Rochefoucauld, ripreso da De Andrè). Alcuni di noi, bisogna dire, riescono ad abbinare le cose: forniscono, insieme, consigli inutili ed esempi discutibili.


1. Impegnatevi a fondo. Non perdetevi in chiacchiere e non mostrate indecisione. Se un giorno volete diventare giornalisti dovete esserne certi.

2. Imparate l’inglese! Non lo ripeterò mai abbastanza. Nell’industria in cui state per entrare buona parte della forza-lavoro parla inglese.

3. Non rubate. Anzi, non fate nulla che vi farebbe fare brutta figura alla macchina della verità.

4. Siate sempre puntuali.

5. Non accampate scuse, non incolpate gli altri.

6. Non datevi mai per malati. A meno che non vi amputino un arto, abbiate un’emorragia arteriosa, ferite al petto invalidanti o muoia un parente prossimo.

7. Pigrizia, sciatteria e lentezza sono cattive qualità. Intraprendenza, ingegnosità e iperattività sono buone qualità.

8. Siate preparati ad assistere a ingiustizie e follie umane di ogni sorta. Senza che vi mandino in tilt o vi avvelenino l’umore. Dovrete semplicemente sopportare le contraddizioni e le iniquità di questa vita.

9. Aspettatevi sempre il peggio. Da tutti. Ciononostante, non permettete che questa prospettiva negativa influenzi il vostro rendimento. Buttatevi tutte alle spalle. Ridete di ciò che vedete e sospettate.

10. Cercate di non mentire.

11. Evitate i giornali e i programmi che portano il nome del proprietario scritto sopra la testata. Quelli che mandano cattivo odore. E quelli dal nome buffo o patetico; stonerà sul vostro curriculum.

12. Pensate al curriculum! Che effetto farà su chi sta vagliando una pila di email il fatto che non abbiate mai lavorato nello stesso posto per più di sei mesi?

13. Leggete! Leggete giornali, libri sul giornalismo e riviste. Sono utili per tenersi aggiornati sulle tendenze dell’industria e per rubare idee.

14. Prendete le cose con umorismo. Ne avrete bisogno.

P.S. Questi consigli vengono da “Kitchen Confidential” di Anthony Bourdain (Feltrinelli). Ho semplicemente sostituito “chef” con giornalista, “cucina” con giornalismo, “ristoranti” con giornali e “lingua spagnola” con lingua inglese. Le ricette del successo professionale sono le stesse dovunque, ragazzi.

Beppe Severgnini - Corsera
 
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postato da  Claudio Maffei alle  22:18 | aggiungi commento | commenti presenti [0]



11 Feb 2012
Non usa mai il congiuntivo. Devo insistere o lascio correre?
Da un bel po' di tempo, il congiuntivo è quasi sempre sostituito dall'indicativo e il condizionale è fantasma. Per capire l'importanza di questi modi verbali bisogna ricordare che ognuno nasce da un'immagine della mente, e ne suscita una. Il congiuntivo indica una possibilità: usarlo (bene) vuole dire distinguere tra ipotesi e realtà, fantasia e concretezza. Con esso si dà forma a emozioni che colorano il pensiero, il modo di comprendere e inventare la realtà. Senza il congiuntivo, ci si limita a un «reale» perlopiù contemporaneo, ma anche futuro, come se il futuro non avesse sorprese, fosse solo un presente un po' più in là. «Sono contenta che tu sia qui». Ci sei e sono contenta. Avresti potuto non esserci. Tu o il destino avete scelto che tu sia qui. «Sono contenta che sei qui»: ci sei, e basta. Quanto al condizionale, indica un evento che può succedere soltanto se si verifichino determinate condizioni. Possederlo significa avere introiettato la relazione causa-effetto: «Se passassi l'esame, andrei in vacanza». È tutto sospeso all'incerto del passar l'esame. «Andrò se passerò l'esame»: è lo stesso concetto, ma appiattito. Manca il dubbio, l'ansia. La struttura profonda del linguaggio, logica e astratta, s'impoverisce a favore dell'esperienza diretta. Sostituito dall'indicativo sta sparendo anche il passato remoto, che indica avvenimenti compiuti, lontani nel tempo. È il fondamento della storia; la sua assenza attualizza tutto, togliendo la prospettiva temporale, rendendo difficile la comprensione delle cause. L'indicativo è più coinvolgente, perché attualizza, ma distoglie dall'esame obiettivo, dalla riflessione emotivamente distaccata. Anche l'uso dei sinonimi è sempre più limitato. Peccato, perché usare le gradazioni dei vocaboli vuole dire esprimere bene, senza ferire la fantasia, quell'antidoto alla noia che si nutre delle differenze.
Federica Mormando, psicoterapeuta
 
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postato da  Claudio Maffei alle  12:50 | aggiungi commento | commenti presenti [0]



1 Feb 2012
Era una bella salita
Oggi camminavo in montagna.
Era una bella salita.
Di quelle che intraprendo ingenuamente per vedere se trovo l’illuminazione, per poi scoprire confermata una verità che ho letto da qualche parte, che diceva che l’illuminazione che trovi in cima alle montagne è quella che hai messo nello zaino quando sei partito.
Beh… comunque sia, ho notato che quando cammini in montagna succede una cosa bella.
La gente ti saluta.
E questa è, a mio giudizio, una bella cosa.
Come un segno di rispetto.
Quelli in discesa cedono il passo a quelli in salita.
Come un segno di rispetto.
Quando ti fermi in un luogo dove altri riposano, ci si stringe e ci si offre qualcosa.
Come un segno di rispetto.
Quando vedi uno che si siede lungo la via o si appoggia ad un albero gli chiedi se è tutto a posto.
Come un segno di interesse disinteressato.
Allora mi chiedevo perché in montagna sì e in centro o in treno o in autogrill no?
Immagino che se lo chiedano in tanti.
Non faccio il filosofo e nemmeno il sociologo e quindi le mie risposte sono un po’ quelle che potrebbe avere dato mia nonna, che non aveva superato la terza elementare, e che non si è mai addentrata nei temi dell’anima e dei mutamenti culturali.
Tra i ciottoli e i cespugli del sentiero che percorrevo ho ipotizzato questa banale argomentazione:

1. in montagna si suda e si fatica;
2. in montagna non c’è folla;
3. in montagna è evidente che in qualsiasi momento la tua sicurezza potrebbe diventare necessità di aiuto;
4. in montagna è evidente che tu sei un pezzo accessorio del Creato, che vive e sta bene anche senza di te e proprio per questo diventi tu, e i tuoi simili, raro e prezioso… e delicato e fragile.


Allora, come un piccolo miracolo inaspettato rispunta quel sentimento che ti fa pensare che dopotutto una vita senza rispetto è proprio una vita di merda.
E una altra vita è possibile.
Molto più piena e soddisfacente.
E passa attraverso un meccanismo antico che tendiamo a dimenticare perché siamo tutti presi dal desiderio di eternità, di volare soli verso il sole come Icaro.
E ti ricordi che, in montagna, non hai proprio tempo da buttare e sprecare ignorando gli altri che come piccoli asteroidi ti schizzano vicini.
In quegli asteroidi impazziti c’è un pezzo di noi . Che senza praticare il rispetto perderemo per sempre.
E sarebbe un peccato, anche in centro.
Sebastiano Zanolli
 
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25 Gen 2012
Manuale del controfighetto
«Tu fai parte del segmento di mercato più odioso. Quello dei controfighetti», mi disse il grande industriale inventore di vari brand. «Quando qualcosa va di moda, voi fate il contrario. Siete una fatica per chi produce». Me lo disse anni fa; da allora, lusingata ma colpevolizzata, ho cercato di analizzare il complesso rapporto con le marche dei miei simili. Effettivamente non simpatico. Inevitabilmente oggetto d’ironia: in America è diventato un filone, dal saggio Bobos in Paradise di David Brooks sullo stile di vita dei «borghesi bohémien» (addirittura) alla nuova sitcom Portlandia, che fa molto ridere sulle ossessioni ecocompatibili e glocali degli «hipster», i giovani e finti giovani liberal più ganzi di tutti. Alla fine, speculare ai consumi vistosi dei griffe-dipendenti: il controfighetto spende in modo accurato, maniacale e, a suo modo, molto attento ai brand. Perché, come spiega tra gli altri Vanni Codeluppi nel suo Il potere della marca (Bollati Boringhieri), negli ultimi anni c’è stato «un passaggio dalla marca che mostra di vivere come vorrebbe vivere il consumatore a quella che fa vedere di pensare esattamente come quest’ultimo». Quindi (antropologicamente parlando) la marca o finta non-marca che scegliamo deve essere «buona da mangiare» (o da indossare, ma nel nostro caso di controfighetti slow-foodisti l’edibilità è importante) ma soprattutto «buona da pensare». Insomma, il contrario di una pelliccia, di una merendina nella plastica, di un capetto o di un accessorio che identifica il portatore come una vittima della pubblicità e delle tendenze. E invece, una merce (sempre merce è) che distingue (comunque distingue, comunque indica come parte di un gruppo) dai rintronati dagli spot tv, dai trucidi che parcheggiano il Suv sui marciapiedi, dalle finte bionde. Poi alcune controfighette sono finte bionde, ma lo sono grazie a parrucchieri più cari che usano «tinte naturali», poi vai a sapere. Poi vai a sapere se i controfighetti non sono brandizzati: a volte lo sono, in modo segreto e perverso. La marca non deve essere visibile, casomai riconoscibile grazie a codici nascosti. E certe marche sono irresistibili, anche per loro. Principalmente, si tratta di marche di scarpe, di golf di lana pregiata, di alimenti natural-gourmet, di vino (con la recessione i controfighetti si buttano vieppiù su vino e cucina in casa, prima viene lo stomaco poi vengono le marche, parafrasando Brecht).
Maria Laura Rodotà-Corsera
 
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postato da  Claudio Maffei alle  18:50 | aggiungi commento | commenti presenti [0]



16 Gen 2012
Un augurio speciale
Racconta una bella leggenda araba che due amici viaggiavano nel deserto. A un certo punto del viaggio, ebbero un’accesa discussione.
Uno dei due, offeso, senza dire nulla prese una bacchetta e scrisse sulla sabbia:” Oggi, il mio migliore amico, mi ha dato uno schiaffo in faccia”.
Continuarono il viaggio e arrivarono ad un’oasi dove decisero di fare un bagno.
Quello dei due che era stato offeso rischiò seriamente di affogare e venne salvato dall’amico.
Quando si fu ripreso, prese uno scalpello e scrisse su una pietra: “Oggi, il mio migliore amico mi ha salvato la vita”.
L’amico, incuriosito, gli chiese: “ Perché dopo che abbiamo litigato hai scritto nella sabbia e ora scolpisci una pietra? L’altro, sorridendo, rispose: “Quando un grande amico ci offende dobbiamo scrivere sulla sabbia affinché il vento dell’oblio e del perdono cancelli l’offesa.
Quando qualcuno ci fa qualcosa di grandioso dobbiamo inciderlo sulla pietra e serbare memoria nel nostro cuore affinché nessun vento del mondo possa cancellarlo”.
Autore anonimo

In questo anno nuovo auguro a tutti voi che i dispiaceri siano portati via dal vento e che siate capaci di tenere sempre le cose buone scolpite nel vostro cuore come su una pietra.
 
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postato da  Claudio Maffei alle  16:57 | aggiungi commento | commenti presenti [0]



23 Dic 2011
Intervista a Wayne W. Dyer
Una delle cose che mi ha più intrigato negli anni è stato scoprire quanta gente si senta priva di scopo e cerchi di dare un senso alla propria vita. Ho sentito spesso chiedere qual è il mio scopo?
Come faccio a trovarlo? Sento che mi sta sfuggendo qualcosa e così via. E ho sempre pensato che il vero scopo della vita sia essere felici, viverla appieno, aprirsi e raggiungere una meta un vero solido punto di arrivo. Troppe persone passano la loro esistenza cercando continuamente un altrove e non arrivano da nessuna parte. Uno dei modi per comprendere qual è esattamente il proprio scopo nella vita e quello di ritornare alla natura, di riscoprire la propria natura.
Qualche anno fa ho scritto un libro “Cambia i tuoi pensieri, cambia la tua vita” basato sugli antichi insegnamenti di Lao Tzu contenuti nel libro Daodejing. Lao Tzu ci ricorda che tutto l’essere ha origine nel non essere : Gesù nel nuovo testamento dice che la fonte della vita è nello spirito e che non siamo figli dei nostri genitori noi in realtà proveniamo tutti da questo luogo chiamato spirito. Quando ognuno di noi viene al mondo proviene da una piccola infinitesimale gocciolina di protoplasma umano, da un puntino se volete e tutto ciò che era contenuto in quel puntino, dal quale proveniamo, è tutto ciò di cui abbiamo davvero bisogno. Dovunque andiamo siamo tutti circondati da una serie di persone, la nostra famiglia, la nostra cultura le quali iniziano a convincerci che non possiamo credere in chi siamo. Dobbiamo credere in qualcosa che è fuori di noi, la meta del viaggio, la nostra ambizione. Dal momento in cui diciamo “adesso comando io” introduciamo una impurità, rompiamo questa perfezione ed escludiamo il nostro creatore gli diciamo così: tu stai fuori! Chi sta parlato è l’ego, l’ego è la parte di noi che inizia a dirci la persona che sei non è la creazione perfetta di Dio, quella particella di dio da cui tutti proveniamo, non dice questo, l’ego dice ti sei solo quello che hai. Iniziamo con i nostri giocattoli, poi con il nostro conto in banca e con tutte le cose che possediamo, senza accorgercene finiamo per l’identificarci con i beni che possediamo e cominciamo a prendere per veri concetti come: “più cose possiedo più acquisto valore come persona”. Così passiamo la nostra vita a condizionare ad immergere anche i bambini in una cultura che dà importanza al di più, ciò diventa quasi un mantra dell’ego. Dobbiamo avere di più, ma più cose abbiamo più ci rendiamo conto di quanto le altre persone cerchino di portarcele via. Dunque il secondo elemento dell’ego è l’idea secondo cui non siamo solo quello che abbiamo ma anche ciò che facciamo e ciò che facciamo per noi diventa realizzazione di sé, così in questo mondo, che ritiene che ognuno sia quello che fa, veniamo consumati dall’idea che il successo, il valore, l’immagine che abbiamo di noi si basi su quanto riusciamo ad ottenere per cui dobbiamo fare più soldi, avere delle promozioni sul lavoro ed essere in competizione con tutti per ottenere ciò che vogliamo. Questo ci viene detto e ripetuto continuamente fin da ragazzini nelle gare di atletica, ci dicono che la cosa più importante è essere sempre il numero 1, essere sempre il primo davanti a tutti gli altri e così ci abituiamo a crescere con questo atteggiamento di competizione credendo che sia normale vivere in un mondo competitivo. E’ questo l’inganno dell’ego.
Un terzo aspetto della cosa è che crediamo di essere ciò che gli altri pensano di noi quindi che siamo la nostra reputazione, il che è particolarmente importante per gli adolescenti ai quali si insegna a vestire come si vestono gli altri. Se non piacciamo agli altri c’è qualcosa di sbagliato in noi. Essendo consumatori dobbiamo comprare sempre qualcosa di nuovo e questo è particolarmente evidente per le donne soprattutto nelle relazioni familiari. Nella nostra cultura, nella nostra società viene insegnato loro che la sola via per realizzare se stesse è trovare il modo di rapportarsi alla famiglia rapportarsi come figlia, rapportarsi come madre, rapportarsi come nonna e anche se l’aspetto della procreazione è molto importante nella vita di ogni donna a patto che sia una sua scelta non è l’unica scelta possibile, molte donne sentono in se stesse una specie di voce interiore come una chiamata a compiere qualcosa di grande a offrire un contributo, ma molto spesso la ignorano. Così io cerco sempre di incoraggiarle ad ascoltare, a non ignorare questa chiamata, a non ignorare quella parte di sé che dice: “sei venuta al mondo per creare qualcosa di potente di grande e hai tutti i diritti e tutte le capacità di farlo, se vuoi, come chiunque altro”. L’ego ha uno schema mentale fortissimo in cui la persona che siamo è separata da tutte le altre. Un'altra parte dell’ego ci dice poi che siamo separati anche da tutto ciò che ci manca nella vita, cioè da tutto quello che vorremmo avere. Infine, l’ego ci porta a commettere l’errore più grande di tutti, ci convince che siamo separati dall’Universo. Uno dei costrutti più semplici che impariamo quando arriviamo al pomeriggio della nostra vita, è che capiamo di avere tutti una sola origine, può essere Dio, può essere il Dao, la natura, lo spirito, non è importante come la si chiami. Tale origine è dovunque non esiste un posto dove non ci sia, ci deve essere perché crea tutto, tutto proviene da questa fonte e deve essere anche in me se è vero che non esiste un posto in cui non ci sia e se deve essere in me deve essere anche in tutte quelle cose che sembrano mancare nella mia vita. Se comprendiamo questo allora in qualche modo comprendiamo anche di essere già collegati spiritualmente a tutto ciò che ci manca e che vorremmo avere. Quindi occorre solo trovare il modo di accettare tale legame, di riconoscere di essere già interconnessi e lasciare che ogni cosa segua il suo corso naturale.
 
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