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3 Gen 2013
La centesima scimmia
La scimmia giapponese Macaca fuscata (o macaco dalla faccia rossa), è stata osservata allo stato selvaggio per un periodo di oltre 30 anni. Nel 1952, sull’isola di Koshima, alcuni scienziati davano da mangiare alle scimmie delle patate dolci sepolte nella sabbia. Alle scimmie piaceva il gusto delle patate dolci, ma trovavano la sabbia assai sgradevole. Un giorno una femmina di 18 mesi chiamata Imo scoprì che era in grado di risolvere il problema lavando le patate in un ruscello vicino. In seguito insegnò questo trucco a sua madre. Anche i suoi compagni di gioco impararono a lavare le patate e lo insegnarono anche alle loro madri. Questa innovazione culturale fu gradualmente accolta dalle varie scimmie mentre gli scienziati le tenevano sotto osservazione.
Tra il 1952 e il 1958 tutte le scimmie giovani impararono a lavare le patate dolci per renderle più appetitose. Solamente gli adulti che imitarono i loro figli appresero questo miglioramento sociale, gli altri continuarono a mangiare le patate sporche di sabbia. Poi accadde qualcosa di veramente notevole. Possiamo dire che nell’autunno del 1958 vi era un certo numero di scimmie sull’isola di Koshima che aveva imparato a lavare le patate, non si conosce il numero esatto. Supponiamo che un dato giorno, quando il sole sorse all’orizzonte, le scimmie che avevano imparato a lavare le loro patate fossero 99. Supponiamo inoltre che proprio quella mattina, la centesima scimmia imparò a lavare patate. A quel punto accadde una cosa molto interessante! Alla sera di quel giorno praticamente tutte le scimmie sull’isola avevano preso l’abitudine di lavare le patate dolci prima di mangiarle. L’energia aggiunta di questa centesima scimmia aprì in qualche modo un varco ideologico! La cosa più sorprendente, osservata da questi scienziati, fu il fatto che l’abitudine di lavare le patate dolci attraversò, in seguito, il mare. Infatti colonie intere di scimmie sulle altre isole ed anche gruppi di scimmie a Takasakiyama cominciarono a lavare le loro patate dolci!
E’ come se arrivare al punto di massa critica (idealmente 100 in questo caso) avesse installato in tutte le scimmie una nuova intelligenza collettiva. Sembra perciò che, quando viene superato, un certo numero critico di elementi raggiunge una nuova consapevolezza e la medesima viene passata da una mente all’altra. Sebbene il numero critico possa variare, il Fenomeno delle Cento Scimmie indica che quando vi sono poche persone che conoscono qualcosa di nuovo, questo nuovo concetto rimane di loro esclusiva proprietà. Ma se a loro si aggiunge anche una persona in più, raggiungendo il numero critico, si crea una idea così potente da poter entrare nella consapevolezza di quasi tutti i membri di quel gruppo!
Sarai tu quest'anno la centesima scimmia?
 
Generale
postato da  Claudio Maffei alle  14:58 | aggiungi commento | commenti presenti [0]



23 Dic 2012
Che storia il panettone!
Che storia il panettone
Invenzione di un ex falconiere o di uno sguattero? L'origine del dolce di Natale tipico di Milano, tra storia e leggenda
Come ogni notte Ugo uscì dalla finestra al freddo di Milano. Con agilità scavalcò la balaustra del balcone e si calò nel giardino. I cani cominciarono ad abbaiare; senza curarsene Ugo corse a perdifiato attraverso tutto il giardino fino ad appiattirsi contro il muro di cinta. Si fermò qualche secondo con il fiato mozzato dalla corsa e dalla paura. I suoi occhi scrutavano nel buio, verso il palazzo, per vedere se qualche finestra si accendeva del debole bagliore delle candele. Tutto tranquillo. I cani cominciarono a calmarsi: anche stanotte, nessuno lo aveva visto uscire. Appigliandosi ad alcuni mattoni disassati, Ugo si issò sopra il muro di cinta che divideva lo splendido palazzo che suo padre, Giacomo degli Atellani, aveva ricevuto in dono da Ludovico il Moro, dai cortili della Milano povera, quella delle botteghe che si affacciavano su Corso Magenta. La luna si nascondeva dietro una coltre di nubi e questo avrebbe coperto la sua corsa attraverso i cortili fino alla bottega di Toni, il panettiere, dove, come ogni notte, avrebbe incontrato la sua Adalgisa. Un amore segreto, osteggiato dalla sua famiglia, lo legava da tempo alla bella figlia del fornaio; ma da un po' le cose non andavano bene. Adalgisa era sempre stanca, il lavoro era aumentato da quando il garzone di suo padre si era ammalato; avrebbero dovuto smettere di vedersi, perché c'era tanto da impastare, preparare, infornare.
Ugo non voleva rinunciare a quegli splendidi occhi per cui avrebbe fatto di tutto e il giorno successivo, con addosso umili abiti, lui, che era il falconiere di Ludovico il Moro, si fece assumere da Toni come nuovo garzone.
Nonostante il giovane, ogni notte, si spaccasse la schiena nel retro bottega per preparare il pane, gli affari del negozio continuavano a peggiorare. Una nuova bottega aveva aperto lì accanto e stava portando via tutti i clienti a Toni.

Ugo non perse tempo, e con l'incoscienza tipica dei giovani, rubò una splendida coppia di falchi al Moro e li vendette per comprare del burro. La notte, mentre impastava i soliti ingredienti, aggiunse al preparato anche tutto il burro acquistato. Il giorno successivo la bottega fu letteralmente presa d'assalto, si cominciava già a favoleggiare del pane più buono di Milano. Nei giorni successivi altri due falchi vennero sacrificati per l'acquisto di altro burro e di un po' di zucchero da aggiungere all'impasto del pane. Milano impazziva per il "pane speciale" del Toni. La coda fuori dalla bottega era interminabile e ogni notte bisognava impastare sempre di più. Mentre l'inverno si avvicinava, gli affari miglioravano e Ugo e Adalgisa potevano nuovamente pensare ad un futuro da passare assieme.

Sotto le feste di Natale, Ugo diede un ultimo tocco di classe alla ricetta del "pane speciale" e aggiunse uova, pezzetti di cedro candito e uva sultanina. Tutta Milano, in quei giorni prima di Natale, transitò dalla bottega per comprare quello che già tutti chiamavano "pangrande" o "pan del Toni" (da qui il termine panettone), da servire in tavola il giorno di Natale. Toni divenne ricco e i genitori di Ugo non ebbero più da lamentarsi di Adalgisa e così, come ogni storia che si rispetti, i due giovani si sposarono e vissero felici e contenti.

Questa è sicuramente la più nota leggenda che ci racconta della nascita di uno dei più gloriosi prodotti che Milano abbia mai avuto: il panettone. Ma, secondo altri racconti, l'invenzione del panettone avvenne in modo diverso.
Siamo alla corte di Ludovico Sforza e, come ogni Natale, sta per essere servito in tavola, per il signore di Milano e per i suoi magnifici ospiti, un sontuoso banchetto. Il famoso cuoco (la leggenda purtroppo non ce ne tramanda il nome) al servizio di Ludovico, stava facendo in modo che tutto andasse per il verso giusto, dirigendo i suoi numerosi sottoposti, sia ai fornelli che al servizio in tavola. I piatti si susseguivano uno dopo l'altro, con le giuste pause tra le portate, per accompagnare le papille gustative degli ospiti verso il meraviglioso dolce che doveva chiudere una cena così importante. Il cuoco aveva provveduto di persona a curare l'impasto di questo importante dolce, la cui ricetta segreta si tramandava di padre in figlio all'interno della sua famiglia da secoli. Il signore di Milano sarebbe rimasto a bocca aperta davanti a questa meraviglia del palato.

Le portate passavano e le cucine risuonavano di urla agitate che coprivano l'acciottolio dei piatti e il tramestio delle pentole; tutti avevano qualcosa da fare e forse, proprio per questo, qualcuno scordò di togliere il dolce dal forno. Verso le ultime portate, il cuoco si accorse che mancava il dolce, ma in forno trovò solo un ammasso bruciacchiato e immangiabile. Le urla e le bestemmie arrivarono fino ai tavoli degli invitati. Era ormai troppo tardi per preparare nuovamente un impasto così elaborato; poco importava chi aveva dimenticato il dolce nel forno, tanto Ludovico se la sarebbe presa con lui e lo avrebbe condannato a morte. Disperato il cuoco si abbandonò su una sedia e cominciò a piangere sommessamente.
Toni, un povero sguattero, gli si avvicinò dicendo che aveva tenuto per sé un po' dell'impasto del dolce perduto a cui si era permesso di aggiungere un po' di frutta candita, uova, zucchero e uvetta. Voleva farselo cuocere al termine del lavoro per avere qualcosa da mangiare. Se il cuoco voleva poteva portare quel dolce a tavola. Guidato dalla forza della disperazione il cuoco infilò nel forno quella specie di forma di pane. Nonostante il povero aspetto, non avendo più nulla da perdere, il cuoco fece portare il dolce in tavola. Neanche a dirlo, il pan del Toni riscosse un successo strepitoso, tanto che il cuoco fu obbligato a servirlo a tutti i banchetti natalizi degli anni successivi e presto l'usanza si diffuse fra tutta la popolazione.

Un'altra leggenda ancora, racconta invece di suor Ughetta, cuoca di un povero convento, e di come decise di unire i pochi ingredienti rimasti nella cucina del monastero, per regalare alle suo consorelle un Natale un po' più felice. Prese l'impasto del pane e aggiunse uova e zucchero. In una scansia trovò anche un po' di canditi e dell'uvetta. Per benedire quel pane natalizio vi tracciò sopra, con il coltello, una croce. Le suore furono entusiaste della sorpresa e presto la notizia del pane del convento si sparse in tutta Milano. I cittadini cominciarono così a fare offerte al convento (che non fu più povero) per portare a casa un po' di quel pane speciale.

La tradizione vuole che in passato il panettone fosse fatto in casa, sotto il controllo del capo famiglia, che al termine della preparazione doveva inciderci sopra una croce con il coltello come benedizione per il nuovo anno. Il dolce doveva essere consumato durante la cerimonia detta del ceppo o del ciocco, durante la quale si accendeva un grosso ceppo di quercia, posato nel camino, sopra un letto di ginepro. Il capo famiglia doveva poi versarsi del vino, berne un sorso e, dopo aver versato un po' di quello stesso vino sul ceppo acceso, far passare il bicchiere a tutti i membri della famiglia che dovevano berne a loro volta. Il capo famiglia gettava allora una moneta tra le fiamme e poi distribuiva una moneta ad ogni famigliare. Al termine di questo rito gli venivano portati tre panettoni (in antichità erano tre pani di frumento e, con ogni probabilità, la ricetta del panettone deriva da una modifica di quella per fare il pane per la cerimonia del ciocco). Con un grosso coltello il capo famiglia tagliava un pezzo di uno dei panettoni che doveva essere conservato fino al Natale successivo; sembra che il pezzo avesse forti poteri taumaturgici e dovesse assolutamente essere conservato, pena un anno di sfortuna. La credenza è tipicamente pagana, ma stranamente si trova in mezzo ad una cerimonia imbevuta di una potente simbologia cristiana, come ad esempio il ceppo che simboleggia l'albero del bene e del male, il fuoco che rappresenta l'opera di redenzione di Cristo, mentre i tre panettoni il mistero della Trinità. Peccato che oggi non ne resti più traccia.
Buon Natale a tutti!
da Vivimilano
 
Generale
postato da  Claudio Maffei alle  10:50 | aggiungi commento | commenti presenti [0]



12 Dic 2012
E-mail: il decalogo di Beppe Severgnini
Non sono un virtuoso; in materia di posta elettronica, sono invece un previdente che ha imparato a sue spese. Ho iniziato nella primavera del 1994 — vivevo negli Usa, a Washington DC — a utilizzare questo strumento, che benedico ogni giorno e maledico ogni tanto. Applico, ormai automaticamente, dieci norme di comportamento. Ve le propongo in questo #mailday 12.12.12.

1) Non è necessario rispondere a tutte le mail. A meno che il messaggio ricevuto richieda una risposta (per necessità, utilità, diplomazia, buon cuore o buona educazione).

2) Non è scortese rispondere in modo breve. Perché la sintesi (sia benedetta) dev’essere confinata a Twitter, sms o WhatsApp? I Neoampollosi — categoria insidiosa e numerosa—utilizzano uno strumento nuovo e veloce per conservare vecchie, faticose abitudini. Pessima combinazione. Alla larga.

3) Non è vietato rileggere le mail prima di premere «Invio». Un errore ortografico è perdonabile; tre sono irritanti; dieci, vergognosi. La rilettura ha due vantaggi: riduce i rischi dell’impulsività e raddoppia il tempo dedicato a ogni messaggio (ne spediremo meno, avvicinandoci a quota 36).

4) Non è opportuno mettere in copia (cc) tutti i famigliari, metà degli amici, un terzo dei colleghi, un decimo della popolazione italiana. Le email che presentano liste infinite di destinatari sono sospette. Che valore può avere una cosa che dici a tutti, caro R.?

5) Non è elegante usare troppo spesso la copia nascosta (bcc). Ci sono occasioni in cui è utile; ma l’operazione resta delicata, e può diventare truffaldina. È come quando, a scuola, si mostrava all’amico del cuore i bigliettini della ragazza; senza informarla, naturalmente.

6) Non è onesto caricare le mail di inutili allegati. Sempre più spesso, infatti, riceviamo i messaggi su dispositivi mobili. Leggere «Vuoi scaricare gli allegati?», rispondere «Sì» e ritrovarsi a guardare cinque foto di gatti in alta risoluzione è irritante. Anche per i felini in questione, se il mittente li avesse interpellati.

7) Non è salutare ricevere/ spedire posta come prima attività al mattino e ultimo gesto della sera. Avanti, aprite la casella «posta inviata» e controllate l’orario. Se il primo messaggio segna 07.22 e l’ultimo 00.16, preoccupatevi. Lettura, meditazione, sesso, tisane, dvd e buona televisione: quante cose da fare la sera, prima di addormentarsi. Caffè nero, pensieri chiari, sguardi dalla finestra, giornali quotidiani (oh yes), affettuosità familiari: sono molte le attività degne del primo mattino.

8) Non è dignitoso tempestare di mail una persona, anche se l’avete sposata e/o ne siete innamorati, se la stimate o avete bisogno di lei. Un messaggio di posta non è invadente come un sms, l’ha stabilito anche la Cassazione. Ma i dispositivi mobili segnano il numero di messaggi in arrivo. Se il circolino rosso sopra il simbolo della posta dice «88», e tutti i messaggi sono di Ottavio, lei ha un problema, signorina.

9) Non è obbligatorio spedire una mail. Ci sono anche i buoni, vecchi sms. Il telefono (mobile e fisso). I biglietti. I post-it. Le visite personali. Le sane, vecchie urla da una stanza all’altra.

10) Ignorate ognuna di queste regole se vi induce a fare cose sciocche, dannose e imbarazzanti. Non è vietato inviare mail alle quattro del mattino, a patto d’esser sobri. Ma dev’essere un’eccezione. Se fosse la norma, avete un bioritmo strano e un partner santo. Probabilmente, tutt’e due.

Corsera 9/12/12
 
Generale
postato da  Claudio Maffei alle  22:36 | aggiungi commento | commenti presenti [1]



4 Dic 2012
Consigli per l'anno nuovo
1) Tieni sempre conto del fatto che un grande amore e dei grande risultati comportano un grande rischio.
2) Quando perdi, non perdere la lezione.
3) Segui sempre le tre “R”: Rispetto per te stesso, Rispetto per gli altri, Responsabilità per le tue azioni.
...4) Ricorda che non ottenere quel che si vuole può essere talvolta un meraviglioso colpo di fortuna.
5) Impara le regole, affinchè tu possa infrangerle in modo appropriato.
6) Non permettere che una piccola disputa danneggi una grande amicizia.
7) Quando ti accorgi di aver commesso un errore, fai immediatamente qualcosa per correggerlo.
8)Trascorri un pò di tempo da solo ogni giorno.
9) Apri le braccia al cambiamento, ma non lasciar andare i tuoi valori.
10) Ricorda che talvolta il silenzio è la migliore risposta.
11) Vivi una buona, onorevole vita, di modo che, quando ci ripenserai da vecchio, potrai godertela una seconda volta.
12) Un’atmosfera amorevole nella tua casa deve essere il fondamento della tua vita.
13) Quando ti trovi in disaccordo con le persone a te care, affronta soltanto il problema attuale, senza tirare in ballo il passato.
14) Condividi la tua conoscenza. E’ un modo di raggiungere l’immortalità.
15) Sii gentile con la Terra.
16) Almeno una volta l’anno vai in un posto dove non sei mai stato prima.
17) Ricorda che il miglior rapporto è quello in cui ci si ama di più di quanto si abbia bisogno l’uno dell’altro.
18) Giudica il tuo successo in relazione a ciò a cui hai dovuto rinunciare per ottenerlo.
 
Generale
postato da  Claudio Maffei alle  12:59 | aggiungi commento | commenti presenti [0]



27 Nov 2012
Il cuore più bello
C'era una volta un giovane in mezzo a una piazza gremita di persone: diceva di avere il cuore più bello del mondo, o quantomeno della vallata. Tutti quanti glielo ammiravano: era davvero perfetto, senza alcun minimo difetto. Erano tutti concordi nell'ammettere che quello era proprio il cuore più bello che avessero mai visto in vita loro, e più lo dicevano, più il giovane s'insuperbiva e si vantava di quel suo cuore meraviglioso. All'improvviso spuntò fuori dal nulla un vecchio, che emergendo dalla folla disse:
"Beh, a dire il vero... il tuo cuore è molto meno bello del mio."
Quando lo mostrò, aveva puntati addosso gli occhi di tutti: della folla, e del ragazzo.
Certo, quel cuore batteva forte, ma era ricoperto di cicatrici. C'erano zone dove dalle quali erano stati asportati dei pezzi e rimpiazzati con altri, ma non combaciavano bene, così il cuore risultava tutto bitorzoluto. Per giunta, era pieno di grossi buchi dove mancavano interi pezzi. Così tutti quanti osservavano il vecchio, colmi di perplessità, domandandosi come potesse affermare che il suo cuore fosse bello.
Il giovane guardò com'era ridotto quel vecchio e scoppiò a ridere:
"Starai scherzando!", disse. "Confronta il tuo cuore col mio: il mio è perfetto, mentre il tuo è un rattoppo di ferite e lacrime."
"E' vero!", ammise il vecchio.
"Il tuo ha un aspetto assolutamente perfetto, ma non farei mai cambio col mio. Vedi, ciascuna ferita rappresenta una persona alla quale ho donato il mio amore: ho staccato un pezzo del mio cuore e gliel'ho dato, e spesso ne ho ricevuto in cambio un pezzo del loro cuore, a colmare il vuoto lasciato nel mio cuore. Ma, certo, ciò che dai non è mai esattamente uguale a ciò che ricevi e così ho qualche bitorzolo, a cui però sono affezionato: ciascuno mi ricorda l'amore che ho condiviso. Altre volte invece ho dato via pezzi del mio cuore a persone che non mi hanno corrisposto: questo ti spiega le voragini. Amare è rischioso, certo, ma per quanto dolorose siano queste voragini che rimangono aperte nel mio cuore, mi ricordano sempre l'amore che ho provato anche per queste persone...e chissà? Forse un giorno ritorneranno, e magari colmeranno lo spazio che ho riservato per loro. Comprendi, adesso, che cosa sia il vero amore?"
Il giovane era rimasto senza parole, e lacrime copiose gli rigavano il volto. Prese un pezzo del proprio cuore, andò incontro al vecchio, e gliel'offrì con le mani che tremavano.
Il vecchio lo accettò, lo mise nel suo cuore, poi prese un pezzo del suo vecchio cuore rattoppato e con esso colmò la ferita rimasta aperta nel cuore del giovane. Ci entrava, ma non combaciava perfettamente, faceva un piccolo bitorzolo. Poi il vecchio aggiunse:
"Se la nota musicale dicesse:" Non è la nota che fa la musica..." Non ci sarebbero le sinfonie.
Se la parola dicesse:"Non è una parola che può fare una pagina..." Non ci sarebbero i libri.
Se la pietra dicesse: "Non è una pietra che può alzare un muro..." Non ci sarebbero case.
Se la goccia d'acqua dicesse:"Non è una goccia d'acqua che può fare un fiume..." Non ci sarebbero gli oceani.
Se l'uomo dicesse: "Non è un gesto d'amore che può rendere felici e cambiare il destino del mondo..." Non ci sarebbero mai né giustizia, né pace, né felicità sulla terra degli uomini".
Dopo aver ascoltato, il giovane guardò il suo cuore, che non era più "il cuore più bello del mondo", eppure lo trovava più meraviglioso che mai: perchè l'amore del vecchio ora scorreva dentro di lui.
In questa storiella c'è racchiusa un pò di vita di tutte le persone, ognuna con il suo cuore, con i suoi bitorzoli, con i suoi vuoti, e con tutto ciò che nel corso degli anni si è donato e si è ricevuto.
E come la sinfonia ha bisogno di ogni nota; come il libro ha bisogno di ogni parola; come la casa ha bisogno di ogni pietra; come l'oceano ha bisogno di ogni goccia d'acqua; così il mondo ha bisogno di te, ha bisogno del tuo amore, perché sei unico ed insostituibile...
(Grazie a Nicoletta Todesco)
 
Generale
postato da  Claudio Maffei alle  11:59 | aggiungi commento | commenti presenti [0]



24 Nov 2012
Diverso da chi
Ogni volta che la cronaca ci sbatte in faccia bande di nazistelli che picchiano ebrei o gruppi di ragazzi che sbertucciano un compagno troppo sensibile fino a indurlo al suicidio, mi domando in quale anno, in quale secolo siamo. Davvero nel 2012, con tutti i problemi seri che abbiamo, ci sono persone che passano ancora il loro tempo a sfottere e minacciare chi è diverso da loro? Posso ancora perdonare una battuta stupida e conformista, pronunciata in un momento di debolezza e in ossequio a un cliché. Ma qui parliamo di giovani che trascorrono giornate intere a scrivere su un computer sconcezze astruse, a organizzare raid punitivi contro degli estranei, a godere della sofferenza inferta a un coetaneo che ha l’unica colpa di vestirsi in modo eccentrico. Quanti pregiudizi nasconde questo gigantesco spreco di energie, questo patetico proiettarsi nelle presunte miserie altrui per non essere costretti a fare i conti con le proprie paure e provare, finalmente, a crescere?

Se chiudo gli occhi, mi sembra di vederli sfilare al passo dell’oca: bulli, nazistelli, fanatici di ogni risma e colore. Avvinghiati alle loro patetiche certezze di cartapesta, al loro ridicolo senso del rispetto e dell’orgoglio tribale. Tanti Io deboli raggrumati in un Noi insulso. Li guardo e non mi fanno paura. Solo tanta pena. Spero che un giorno la vita li sorprenda davanti a uno specchio, costringendoli a vedere che siamo tutti sul medesimo albero. Anzi, che siamo l’albero, e chi dà fuoco a un ramo diverso dal proprio sta solo incendiando se stesso.
Massimo Gramellini - La Stampa
 
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postato da  Claudio Maffei alle  10:19 | aggiungi commento | commenti presenti [1]



23 Nov 2012
La mappa non è il territorio
C’erano una volta sei uomini ciechi che non avevano mai visto un elefante dal vivo. Assetati di conoscenza, si erano messi in testa di scoprire com’era fatto l’elefante.
Il primo, avvicinatosi alla bestia, va a sbattere contro il suo fianco alquanto tosto: Dio mi benedica, ma l’elefante assomiglia di brutto a un muro!
Il secondo, toccando una delle zanne, esclama stupito: Ma qui c’è una roba rotonda, liscia e appuntita, l’elefante è simile ad una lancia!
Il terzo, prendendo (a stento) in mano la proboscide che si muove in continuazione: Ma che dite, questo è un serpente!
Il quarto, allungando curioso la mano e tastando il ginocchio: Ma va…, è abbastanza chiaro che questo è un albero!
Il quinto, capitato per caso a contatto di un orecchio: Ma fatemi il piacere, questo stupendo elefante è praticamente un ventaglio!
Il sesto, prendendo in mano la coda: non vedete che è una corda?
Fatto sta che, tutti convinti di aver ragione, incominciano a discutere e probabilmente sono ancora lì ad accapigliarsi: ognuno di loro ha evidentemente ragione in piccola parte, ha ragione rispetto al suo punto di vista!”
 
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postato da  Claudio Maffei alle  15:40 | aggiungi commento | commenti presenti [0]



19 Nov 2012
E' il minimo che possiamo fare
Riceviamo e volentieri pubblichiamo.

Chi scrive lavora con un certo orgoglio da quasi 14 anni per la più grande azienda di ristorazione e servizi al mondo. L’orgoglio è dato dal fatto che ritengo di avere sempre cercato di agire con correttezza e nell’interesse dell’azienda che, in questo caso è proprio giusto dirlo, “mi dà da mangiare”.
Tutto questo presto potrebbe finire.
L’azienda ha infatti aperto una procedura di licenziamento collettivo dichiarando esuberi 824 dipendenti, più del 10% della forza lavoro nel mercato italiano. Di questi, quasi 250 nel torinese.
Tra gli esuberi vi sono figure di quasi ogni livello e inquadramento, che in alcuni casi saranno sostituite da cervelli freschi. Sparisce una figura professionale e al suo posto se ne inventa un’altra, che farà le stesse identiche cose ma si chiamerà in modo diverso e dovrà essere laureata, preferibilmente giovane e conoscere l’inglese.
Chi scrive ha 36 anni, la laurea sente di essersela ampiamente guadagnata sul campo, ha l’ardire di ritenersi ancora giovane e l’inglese ha avuto necessità di usarlo ben due volte in 14 anni di lavoro.
Per dovere di cronaca, specifico che i clienti in entrambe le occasioni hanno inteso benissimo la mia parlata.
Insomma si rottama. Per di più senza incentivi. Zero ammortizzatori sociali, o almeno queste sembrano essere le intenzioni dell’azienda. Azienda che non ha voluto sentire ragioni al tavolo con i sindacati.
Il tutto in ragione del vil denaro, che all’azienda non manca ( i conti italiani non sono colorati di rosso, sia chiaro), ma che evidentemente non è mai abbastanza. Gli azionisti si aspettavano di più dall’Italia, dunque è ora di fare pulizia.
E poco importa se questo significa mettere in difficoltà le famiglie. Ma quello che più mi lascia l’amaro in bocca, lo dico certa di parlare a nome di tutti i lavoratori coinvolti nella manovra, è che sarà come buttar via anni di impiego, sacrificio e devozione. Il nostro è un settore povero, dove il lavoratore non si arricchisce e le soddisfazioni spesso deve andarsele a cercare col lanternino. Ma questa è sempre stata la nostra forza, oltreché una garanzia per il cliente finale. Soddisfarlo, conquistarne la fiducia, farlo sentire a casa. Ci sono ancora mestieri che un robot non può svolgere e il nostro rientra tra questi.
Mestieri in cui oltre all’intraprendenza e alla buona volontà, è necessario avere fantasia, passione, gusto, santa pazienza e dedizione nei confronti del prossimo.
Tutto questo ora non ha più alcun valore, si prende e si butta via. Ciò che conta sono i numeri.
Io sono convinta che le aziende in sé non esistano. Le aziende sono fatte di persone.
Cancellate queste, l’azienda perde la propria forza, la propria ragion d’essere. Chiamatelo romanticismo, illusione, cecità. Questo è il mio pensiero.
Ora, la procedura finirà sul tavolo del Ministero del Lavoro.
Attendiamo che sia il Ministro ad illuminarci su chi è “choosy” in tutta questa brutta vicenda.
Silvia Brizio
 
Generale
postato da  Claudio Maffei alle  11:44 | aggiungi commento | commenti presenti [0]



6 Nov 2012
Ridere è una cosa seria
“Risus abundat in ore stultorum:” il riso abbonda sulla bocca
degli stupidi, dicevano sempre i miei genitori e... a me... veniva
tanto da ridere!
Ho sempre riso molto, a scuola, con gli amici, nel lavoro. Per
un po’ ho anche fatto l’autore per il cabaret e ho pensato di poter
campare così.
Poi, preso per fame, ho cominciato a fare il consulente e il formatore.
Ho cercato di trattenermi un po’, ma senza successo.
Cosa vi devo dire? Mi veniva da ridere!
Una buona battuta di spirito è, per me, talmente importante da
non riuscire a trattenerla, a costo di perdere un’amicizia e perfino
un lavoro.
Il ridere è un segno di trasgressione, di disobbedienza.
S m i t i z z a re, sovvertire le regole, dubitare di tutto ciò che è
ovvio, serve da valvola di sicurezza per non pre n d e re nulla e
soprattutto se stessi troppo seriamente.
Un autore americano, Og Mandino, ha scritto: “Non dovrò
d i v e n i re mai tanto importante, tanto saggio, tanto austero, tanto
potente da dimenticare di ridere di me stesso e del mondo. In
questo voglio rimanere per sempre bambino”.
In effetti, io ero così anche da piccolo. Ho sempre cercato di
far ridere tutti. Per tutti gli anni della scuola ho avuto otto in condotta,
ma qualche pro f e s s o re mi ha confessato, in privato, di
divertirsi come un matto con le mie invenzioni.
Totò e Oliver Hardy sono stati, fin dall’infanzia, i miei attori preferiti.
Cos’avranno mai avuto in comune? Forse la gestione del corpo, la
fisicità. Erano così diversi! Eppure, nei loro film, ogni movimento
era perfetto. Le mani, i piedi, le facce, erano talmente duttili da
sembrare di gomma. Potrei rivedere centinaia di volte “Fra diavolo”
o “Totò, Peppino e a malafemmina” e ogni volta divertirmi e
ridere di gusto.
Ma Totò era inimitabile. Infatti, oltre a snodarsi come un burattino,
era maestro nel gioco di parole: “Signori si nasce e io lo nacqui”,
“Una volta tandem”, “Tu prode! No, a me non mi prode!”,
“Sei edotto? Sì, fanno quattordici”, “Parli come badi”, “Ogni limite
ha una pazienza”, e si potrebbe andare avanti all’infinito.
Ma il mio parrucchiere non è da meno, anche se lo fa in modo
involontario: “Mia figlia vive in una villetta a scheda”, “È stata in
vacanza a Milano Sabbia d’Oro”, “Catilina era la moglie di
C i c e rone”, o addirittura “I figli di Adamo ed Eva erano Caino e
Adele!”.
Sono solo quelle che mi ricordo. Purtroppo non ho il coraggio
di andare con un blocchetto e scrivermele; faccio già abbastanza
fatica a stare serio.
Per fortuna oggi le cose stanno cambiando. E’ infatti scientificamente dimostrato che la maggior parte dei nostri guai di salute (fisica, ma anche psicologica, emotiva, relazionale) sono attribuibili al fatto che prendiamo le cose in maniera drammatica e poco costruttiva. Insomma, ridere fa bene, sotto tutti i punti di vista. Il problema è che, spesso, sembra non ci sia molto da ridere. E allora? Come possiamo fare?
La risposta è nel Laughter Yoga , o Yoga della Risata, una tecnica semplice e potente che arriva dall’India e che, rapidamente, dal 1995 a oggi, si è diffusa a macchia d’olio in tutto il mondo, Italia compresa.
La mia amica Loretta Bert (www.lorettabert.eu) che, fra l’altro, collabora con il dr.Kataria, il medico indiano che ha ideato questa disciplina, ne è entusiasta. Dice che funziona, in tempi brevissimi, come collante per il team building, per risolvere conflitti sul posto di lavoro, per rinforzare la leadership. Loretta propone alle aziende, piccole e grandi, la “laughing room”, una specie di palestra, flessibile fino a diventare quasi virtuale, che favorisce lo spirito di squadra, la produttività e la creatività. Una risposta ottimista e concreta per attraversare i momenti difficili con equilibrio e con ottime probabilità di successo.
 
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27 Ott 2012
Lettera a mio figlio che ha paura del futuro
Caro Giulio, l’altro giorno mi hai telefonato alle 8 di sera per dirmi quanto ti angosciasse la verifica di greco della mattina dopo. Venivi da una settimana nera per te, in cerca come sei di un difficile equilibrio tra i genitori separati, gli amici e l’amore in conflitto, lo studio e lo sport ormai inconciliabili.

Forse per la prima volta, a diciott’anni, tutto ti è sembrato troppo pesante per le tue spalle. Mi hai detto che non stavi bene, che avevi provato a studiare tutto il pomeriggio, ma senza riuscirci. Avevi il mal di testa e il cuore nero. “Papà, domani non vado – hai concluso – non voglio giocarmi mesi di studio solo perchè la verifica arriva in un momento no. La recupererò la settimana prossima quando il momento buio sarà passato e finalmente mi potrò concentrare sullo studio”.

Ti ho risposto di no. Ti ho detto che quando scappi la prima volta, nella vita, prima o poi ce ne sarà sicuramente una seconda. E poi una terza. Dopo un po’ diventa il tuo modo di vivere. Dopo, non è mai colpa tua. Dopo, c’è sempre un buon motivo per scappare, una persona con cui è meglio non confrontarsi, un appuntamento importante al quale non presentarsi.

Ti ho detto che mancavano ancora quattro ore alla mezzanotte. Quattro ore per provare a fare del tuo meglio. Anche se non avevi fame, ti ho suggerito di prendere un pezzo di cioccolato, un po’ di pane e di metterli vicino a Senofonte. E di stringere i denti. “Fa’ quello che puoi – ho insistito – e domattina vai alla tua verifica a testa alta. Non importerà il voto. Se sarà un 5, lo festeggeremo perchè sarà un 5 che avrai preso senza darti per vinto. Ti sarà costato fatica e dolore, ma sarà il piu’ bel 5 della tua vita, molto meglio di un qualsiasi 8 preso la settimana successiva. Ma se prenderai un 6 o un 7, quello sarà il più bel voto della tua vita.Te lo sarai guadagnato contro ogni pronostico e te ne ricorderai per sempre”.

Questa volta mi hai ascoltato. La mattina ero in riunione quando è arrivato il tuo messaggio. La stanza era piena di colleghi alle prese, insieme a me, con l’ennesima emergenza aziendale, di quella che sembra una storia infinita. Non ce l’ho fatta ad aspettare. L’ho aperto e l’ho letto.

C’era scritto: “Ho preso 7 e mezzo. Incredibile. Grazie. Senza di te non ce l’avrei mai fatta”. Mi sono emozionato.

La mattina dopo ho letto su un giornale la lettera che un ex collega (ci eravamo incrociati per poche settimane in Omnitel: io Direttore Marketing, lui Direttore del Personale) aveva scritto a suo figlio. Adesso questo ex-collega, dopo una carriera importante, guida un’Università (finanziata coi soldi degli imprenditori italiani e quindi anche con i miei) che dovrebbe formare i giovani dirigenti dell’Italia di domani.

Vedi, Giulio, in questa lettera c’era scritto esattamente l’opposto di quello che ti avevo detto poche ore prima. Diceva a suo figlio di andarsene dall’Italia. Diceva che per un giovane di talento non vale più la pena di lavorare nel nostro paese. Che la mediocrità, il clientelismo, la rissa istituzionalizzata come unico strumento di confronto, l’impunità, sono ormai l’unica legge e che le regole del gioco sono ormai talmente alterate che non vale nemmeno più la pena di provarci.

Tu sai quanto io ami il nostro Paese. Continuo ad emozionarmi ogni volta che per lavoro o per piacere lo attraverso da nord a sud. Però continuo ad incazzarmi ogni volta che vedo il suo potenziale sprecato. Continuo a discutere, spesso ad accapigliarmi con Ministri, burocrati e Presidenti vari (quasi tutti a Roma si fanno chiamare cosi…).

Continuo a non capire perchè la nostra struttura pubblica sia al tempo stesso così ipertrofica e così assente, perchè i meccanismi legislativi siano così ridondanti e perchè ogni volta che si parla con i sindacati italiani sembra che l’istinto di autoconservazione dell’apparato prevalga sempre sull’interesse dei lavoratori. Continuo a non capire perchè le nostre televisioni siano invase da pessimi esempi per voi giovani e nascondano in maniera quasi scientifica quanto di più bello produce il nostro paese…

Sono tante le cose che mi mandano in bestia, almeno tante quante quelle che fanno arrabbiare il mio ex-collega. Ma nonostante tutto continuo a lottare ogni giorno, proprio perchè del mio Paese vedo i difetti, che non sono pochi e non sono piccoli.

Fra non molto toccherà a te, ai tuoi amici, a raccogliere il testimone. Le sfide che vi attendono sono enormi, ma forse non più grandi di quelle che hanno affrontato i vostri nonni, che ereditarono un Paese distrutto dalla guerra, diviso, penalizzato da un’alfabetizzazione incompiuta e ancora alle prese con un’identità nazionale incerta.

Certo, le esperienze all’estero sono importanti nel mondo globalizzato e integrato di oggi: come fai a competere con inglesi, francesi, tedeschi, ma anche cinesi, indiani e arabi, se non sai come ragionano? Loro vengono da decenni a casa nostra per carpire i segreti di un modello che ha punte di eccellenza riconosciute ovunque, meno che da noi.

A te, Giulio, ai tuoi compagni della generazione del ’90, dico che il vostro futuro è qui, nel vostro Paese. A te, Giulio, dico che se non siete orgogliosi del vostro Paese, anche quando avete legittimi motivi per criticarlo, è difficile essere orgogliosi di voi stessi. La sfida è rimanere per cambiarlo, questo Paese, dove serve, col tempo che ci vuole, fosse anche un sempre. Ci sarà tanto da fare, figlio mio, e tocca a voi. Noi, in effetti, ci meritiamo un bel 5. Ti abbraccio.

Milano, 25 ottobre 2012
VINCENZO NOVARI
AD 3 Italia

da chefuturo.it
 
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