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28 Nov 2011
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Io e McCartney: quando Paul studiava con me
C' era una volta Paul McCartney, seduto da solo a tu per tu con me, a 50 centimetri di distanza, come mi capita tutti i giorni con i miei familiari o gli amici intimi, ma mai e poi mai, avrei pensato fino a quel momento, con una delle poche vere leggende viventi del nostro tempo. E invece era lui, in carne e ossa, quell' aria da eterno ragazzino che da decenni il mondo conosce e idolatra. L' ex Beatle che stasera suonerà al Forum di Assago. Siamo nel 2003: l' azienda per cui lavoravo allora, la Telecom, ho organizzato due concerti di McCartney al Colosseo. Un' iniziativa improba, con complicazioni immani; ma finalmente, quella sera di maggio, siamo lì, pronti. Lui è caricatissimo; lo abbiamo capito durante la prova suono, un lungo esercizio dove ha suonato classici come Lady Madonna o All My Loving . In pochi fortunati, abbiamo assistito dietro le quinte, colpiti dalla padronanza assoluta con cui governa la scena: chiede «chi» controlla «cosa», gli basta uno sguardo per assemblare ogni dettaglio Il primo concerto si tiene il sabato alle 9 e mezza. Tre quarti d' ora prima mi dicono che sir Paul ha bisogno di una mano per alcune traduzioni; chiedono se posso mandargli qualcuno. Non ho il minimo dubbio: «Vengo io», dico, e con mia moglie e mio figlio veniamo introdotti nella grande tenda da campo allestita per il backstage, arredata in stile orientale: tappeti alle pareti, come arazzi, fiori, frutta, vini pregiati. C' è da aspettare; ci sediamo in una specie di salotto dove troviamo un tipo da solo che ci saluta amabile, ci versa da bere e chiacchiera di quello che capita. Solo dopo una ventina di minuti realizzo che stiamo parlando con Bob Geldof. Quando «Macca» mi manda a chiamare, all' inizio del concerto mancano ormai soltanto dieci minuti. Lui è seduto in un camerino austero, solo, concentratissimo. La T-shirt arancione spicca sui divani bianchi. Non ci sono convenevoli; ho appena il tempo di notare la sua pelle un po' troppo tirata. «Devo dire alcune frasi in italiano - spiega -, ho bisogno di una traduzione e di sapere come si pronunciano correttamente». Mi siedo al suo fianco, cominciamo. «Welcome to Rome», legge da un foglio di grande formato. Traduco, e lui trascrive con un pennarello su un altro grande foglio, con la grafia inglese; poi legge l' italiano a voce alta. Naturalmente la pronuncia è approssimativa: lo correggo. Ripete; e ancora, e ancora, e ancora. Si ferma solo quando approvo. Sono stupefatto. Sto con un signore che ha cambiato il mondo con le sue canzoni, che potrebbe tranquillamente rivolgersi al pubblico in inglese, e invece vuole esprimersi nella mia lingua, e per di più senza errori. Per farlo, accetta di essere corretto come uno scolaretto delle elementari: un' umiltà e un perfezionismo che mi dicono come si diventa un Beatle più di mille trattati. Le frasi si succedono; sono tutte piuttosto banali, semplici da tradurre, ma riguardano i suoi affetti principali: Linda e Heather, John, George... è come passare in rassegna la sua vita: «Al mio amico George piaceva suonare l' ukulele, per presentare Something ; «Questa è per Linda», e così via. Guardo l' orologio; non oso dirglielo, ma siamo ben oltre l' orario di inizio. Procediamo imperterriti: «Ho scritto questa canzone dopo la morte di John». «Cerca di dire canzone, non cansone», insisto. Questo è più difficile: la riproviamo almeno dieci volte. Dall' inizio dell' incontro è passata una mezz' ora. Il congedo è velocissimo: ormai il ritardo rischia di diventare eccessivo. «Com' è andata, che tipo è?», incalzano i miei amici all' uscita. «È stata un' incredibile lezione di metodologia», rispondo. Non ho mai cambiato idea.
Andrea Kerbaker - Corsera
 
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postato da  Claudio Maffei alle  18:15 | commenti presenti [0]


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