25 Gen 2012
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Manuale del controfighetto | |
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«Tu fai parte del segmento di mercato più odioso. Quello dei controfighetti», mi disse il grande industriale inventore di vari brand. «Quando qualcosa va di moda, voi fate il contrario. Siete una fatica per chi produce». Me lo disse anni fa; da allora, lusingata ma colpevolizzata, ho cercato di analizzare il complesso rapporto con le marche dei miei simili. Effettivamente non simpatico. Inevitabilmente oggetto d’ironia: in America è diventato un filone, dal saggio Bobos in Paradise di David Brooks sullo stile di vita dei «borghesi bohémien» (addirittura) alla nuova sitcom Portlandia, che fa molto ridere sulle ossessioni ecocompatibili e glocali degli «hipster», i giovani e finti giovani liberal più ganzi di tutti. Alla fine, speculare ai consumi vistosi dei griffe-dipendenti: il controfighetto spende in modo accurato, maniacale e, a suo modo, molto attento ai brand. Perché, come spiega tra gli altri Vanni Codeluppi nel suo Il potere della marca (Bollati Boringhieri), negli ultimi anni c’è stato «un passaggio dalla marca che mostra di vivere come vorrebbe vivere il consumatore a quella che fa vedere di pensare esattamente come quest’ultimo». Quindi (antropologicamente parlando) la marca o finta non-marca che scegliamo deve essere «buona da mangiare» (o da indossare, ma nel nostro caso di controfighetti slow-foodisti l’edibilità è importante) ma soprattutto «buona da pensare». Insomma, il contrario di una pelliccia, di una merendina nella plastica, di un capetto o di un accessorio che identifica il portatore come una vittima della pubblicità e delle tendenze. E invece, una merce (sempre merce è) che distingue (comunque distingue, comunque indica come parte di un gruppo) dai rintronati dagli spot tv, dai trucidi che parcheggiano il Suv sui marciapiedi, dalle finte bionde. Poi alcune controfighette sono finte bionde, ma lo sono grazie a parrucchieri più cari che usano «tinte naturali», poi vai a sapere. Poi vai a sapere se i controfighetti non sono brandizzati: a volte lo sono, in modo segreto e perverso. La marca non deve essere visibile, casomai riconoscibile grazie a codici nascosti. E certe marche sono irresistibili, anche per loro. Principalmente, si tratta di marche di scarpe, di golf di lana pregiata, di alimenti natural-gourmet, di vino (con la recessione i controfighetti si buttano vieppiù su vino e cucina in casa, prima viene lo stomaco poi vengono le marche, parafrasando Brecht).
Maria Laura Rodotà-Corsera |
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postato da Claudio Maffei alle 18:50 | commenti presenti [0] |
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