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4 Lug 2008
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Atleti super con il placebo
Si può imbrogliare senza imbrogliare. Il segreto è nell’effetto placebo, un esempio classico eppure sempre sorprendente delle complesse interazioni tra mente e corpo.
Come può una semplice pillola contenente zucchero mimare gli effetti benefici di un vero farmaco? Come può un atleta «doparsi» senza assumere nient’altro che innocua caramella? Perché il nostro cervello si lascia ingannare?

Professor Fabrizio Benedetti, lei è professore di fisiologia all’Università di Torino, è specializzato in neurofisiologia clinica e i suoi studi suscitano sempre grande interesse, non soltanto tra gli addetti ai lavori. Partiamo dall’inizio: che cos’è esattamente l’effetto placebo?
«Il placebo è una sostanza inerte ed è privo di efficacia clinica. Ma non c’è di mezzo solo l’assunzione di una pastiglia di zucchero. Bisogna aggiungere anche le suggestioni verbali che il paziente riceve dal medico. E’ tutto l’insieme che concorre a far sì che il placebo faccia effetto. E’ terapeutico il contesto psicosociale».

E il suo contrario, l’effetto nocebo?
«Essendo l’effetto opposto, le suggestioni verbali devono essere negative. Il soggetto non si aspetta un beneficio, ma un peggioramento del sintomo».

Qual è l’area cerebrale responsabile di questi fenomeni?
«In alcuni casi gioca un ruolo l’attivazione cerebrale dei meccanismi cognitivi della ricompensa. Un esempio viene dal gioco d’azzardo: vincendo una cifra modesta, si ha un piccolo rilascio di dopamina nel nucleo accumbens, una minuscola area del nostro cervello. Vincendo una somma più consistente, il rilascio di dopamina è maggiore, dato che la ricompensa è maggiore. Nell’effetto placebo sono implicate queste stesse aree cerebrali: si ha un’attivazione dopaminergica grazie alla ricompensa (in questo caso il beneficio terapeutico) che il paziente si aspetta di ricevere».

Ma ci sono anche gli effetti placebo inconsci: in che cosa consistono?
«L’effetto placebo si innesca nel paziente dopo che è stato “condizionato” ad associare l’assunzione della pillola alla scomparsa del sintomo. Quando gli si somministra un farmaco uguale a quello solito, ma privo di efficacia, avviene comunque una risposta dell’organismo. Un po’ come con i famosi cani di Pavlov che associavano l’arrivo del cibo a un suono: appena lo sentivano, cominciavano a salivare».

Che cosa avete scoperto di questi processi fisiologici?
«Abbiamo dimostrato che l’effetto placebo è mediato dagli oppioidi endogeni ed è dovuto all’attivazione di sostanze come le endorfine. L’effetto nocebo, invece, è dovuto all’attivazione di un neuropeptide, la colecistochinina, che ha un effetto iperalgesico, vale a dire un incremento dello stimolo dolorifero. Se si danno suggestioni verbali positive e il paziente si aspetta un miglioramento, si verifica l’attivazione delle endorfine. Se, invece, il soggetto si aspetta di stare peggio, si assiste all’attivazione dell’altro meccanismo. Questi processi si localizzano nei lobi prefrontali del cervello e, infatti, i pazienti con una degenerazione a questo livello dimostrano una riduzione della risposta al placebo».

Adesso vi state occupando anche di doping, giusto?
«Sì. Abbiamo pubblicato una ricerca in cui, mediante un protocollo di condizionamento, si è riusciti a testare l’effetto della somministrazione di morfina negli atleti, aiutandoli così a diminuire la percezione dello sforzo fisico e del dolore. Una squadra è stata allenata con dosi di morfina, somministrata per un periodo di tre settimane, mentre l’altra ha avuto un allenamento standard. Il giorno della gara il risultato della squadra “condizionata” è stato migliore rispetto all’altra, ma il punto è che quel giorno aveva ricevuto solo un placebo. Qualsiasi procedura anti-doping, quindi, non avrebbe rilevato alcun farmaco nell’organismo, perché non era stato somministrato».

E quindi?
«Quindi è possibile condizionare un atleta con una sostanza dopante durante l’allenamento e poi sostituirla il giorno della competizione con un placebo. Il nostro studio è stato pubblicato su “The Journal of Neuroscience” ed è stato ripreso dall’”Economist”, che ha titolato “Come imbrogliare senza imbrogliare!”».

I placebo hanno applicazioni cliniche?
«Sono utilizzati nei “trial” clinici per testare la validità dei nuovi farmaci, che devono avere una risposta migliore rispetto al placebo stesso: soltanto così possono essere considerati efficaci. Ora stiamo studiando dei protocolli per sfruttare il meccanismo del condizionamento, riducendo l’assunzione di farmaci con forti effetti collaterali».

In pratica che cosa fate?
«Si somministra la sostanza per qualche giorno, poi se ne riduce il dosaggio e si dà, al suo posto, un placebo, ma l’effetto terapeutico rimane lo stesso. Abbiamo sperimentato questo schema usando un derivato della morfina, utilizzato per lenire il dolore nella degenza post-operatoria, e siamo riusciti a ridurlo del 30%».

La rivista scientifica britannica «The Lancet» ha pubblicato uno studio che ha fatto discutere: non esiste differenza - si sostiene - tra chi si cura con l’omeopatia e chi si cura con un placebo. Che cosa ne pensa?
«Nessuno studio effettuato in maniera scientifica ha dimostrato che l’omeopatia sia superiore a un placebo. Significa che la medicina omeopatica ha scarsa efficacia».

Giulia Caterina La Stampa 11.06.2008
 
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postato da  Claudio Maffei alle  09:11 | commenti presenti [0]


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