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15 Dic 2013
Le storie
Per 15 anni della mia vita ho fatto il regista: solo in seguito ho seguito il mio istinto di“aiutatore” e mi sono occupato del disagio. Oggi mi occupo, se possibile, solo diaumentare l’agio.
Ma mi è rimasta una piccola mania da regista: le storie degli altri. Per questo ho apprezzato questo libro: è pieno di storie di altri…
Le storie del nostro passato sono come il velo di una sposa che la segue all’altare: attaccate a questo velo ci sono immagini, memorie, emozioni, racconti immaginari…
La persona che abbiamo davanti e che ci sta raccontando di se stessa non sta dicendo la “verità”. Non può dirla. Sta usando per i suoi ricordi la stessa materia dei sogni…e della sua storia non sapremo mai tre cose: quello che non CI dice, quello che non SI dice e quello che è successo veramente.
Ma non è da biasimare: lo facciamo anche noi mentre lo ascoltiamo. Selezioniamo, cancelliamo, distorciamo, generalizziamo, traiamo conclusioni attraverso i nostri propri pregiudizi.
In realtà non stiamo ascoltando la SUA storia, ma la NOSTRA. Se dieci persone ascoltano una storia, ciascun ascoltatore sente cose diverse. Questo avviene anche al cinema.
Naturalmente nella psicoterapia c’è un lungo allenamento all’ascolto attivo e all’osservazione dei nostri pregiudizi mentre ascoltiamo.
E tuttavia, malgrado tutto, il terapeuta va in supervisione perché i suoi fantasmi si agitano come tende al vento del temporale, mentre la persona parla di sé, sembra che parli sempre di lui.
La persona che abbiamo davanti è come una valanga: da piccolo feto ha rotolato nella sua storia, ingrandendosi e diventando adulta, rotolandosi nei fatti e nei racconti suoi propri ha costruito strutture, credenze, certezze che ci propone come se fossero vere davvero.
E noi rispondiamo con le nostre. Come se fossero vere davvero.
E, per quello che mi riguarda, sono tutte illusioni.
Quando dico che se non ti piace la tua infanzia puoi cambiarla, mi guardano con gli occhi sgranati, come se fosse impossibile farlo.
In realtà è impossibile NON farlo. E dunque tanto vale governare il processo di ricontestualizzazione delle storie del nostro passato in una cornice che sia utile e non dannosa.
Questo fa uno sciamano moderno: cambia le cornici in cui vengono guardate, volta dopo volta, le sbiadite e fasulle immagini di un passato che pretendiamo veritiero e spesso doloroso.
Lo sciamano urbano usa le nuvole di parole per farle diventare temporali di nuove idee, che nutrano il campo dell’impossibile, sgombrando il campo del probabile.
Così una violenza subita da bambini diventa un “pareggio di conti in sospeso”, la perdita di un figlio nei primi mesi di gravidanza diventa “la prima volta che quell’anima ha bussato per potersi incarnare, ricevendo una risposta – momentaneamente – negativa.
Busserà ancora, a costo di attendere molte vite, per potersi incarnare attraverso quel corpo”. Una malattia diventa una “benattia"…che consente di rivalutare attentamente che cosa sia davvero importante nella vita” e così via…
La guarigione non ha a che vedere con il “cambiare le cose”, ma con la capacità di interpretarle correttamente. Le emozioni non ci dicono CHE COSA stiamo guardando, ma COME lo stiamo guardando: i pensieri sono creativi e NOI siamo i pensatori.
E ciascuno pensa (e ripensa) alle proprie storie creativamente. In modo divinamente creativo. Con le nostre storie creiamo la nostra realtà. Possiamo cambiare le storie e con questo cambiare la realtà che si piega sempre al nostro libero arbitrio.
Per diritto di nascita.
Tante storie, insomma, tutte intense e sorprendenti. Come lucciole nella notte della coscienza.
Belle queste storie di altri che sono la storia di ciascuno di noi.
Max Damioli



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Generale
postato da  Claudio Maffei alle  19:18 | aggiungi commento | commenti presenti [0]



7 Dic 2013
In-decenti, in-docenti, docenti
In-decenti, in-docenti, docenti6 dic 48 Un libro li definisce “sdraiati”. I ragazzi di oggi. Una generazione che non sa tenere la schiena dritta, ma spalma sulla vita la propria spina dorsale liquida. Avrei la schiena come la loro se mi avessero dotato di una comodissima sedia a sdraio, dalla quale avrei mandato a quel paese chi dopo averla fornita ora, pentito, la rivuole indietro. Moralismo. Nostalgia del tempo andato. Paternalismo sornione.

Gli sdraiati invece li vedo tendersi quando offri loro qualcosa di cui non possono fare a meno e che abbiamo sostituito con surrogati tecnologici, assenza di “no” e limiti, ma soprattutto di mete non autoreferenziali e narcisistiche. Raddrizzano la schiena quando al moralismo sostituisci la morale: facendo loro toccare cosa è bene e cosa è male, non a parole; quando alla nostalgia del tempo andato sostituisci la nostalgia del futuro, sudando lo stesso loro sudore, non metaforico; quando al paternalismo sostituisci la paternità, difendendoli dalle paure ma sfidando le loro risorse migliori, dedicando loro tempo al di fuori di quello stabilito.

La spina dorsale cresce dritta a chi è teso verso la luce, come quelle piante a cui mia nonna metteva accanto un bastone fissato con uno spago, che le lasciava abbastanza libere da slanciarsi verso l’alto e non troppo libere da curvarsi su se stesse. Come si slanciavano verso il sole affondando proporzionalmente le loro radici! Dopo un po’, eliminati spago e bastone, rimanevano dritte, perché la fisica vuole che più ti slanci in alto più hai bisogno di radici profonde. Incolpare la pianta di non avere radici salde è incolpare se stessi, ma questo è duro da ammettere, e la colpa finisce sempre per cadere fuori dal recinto della responsabilità personale: loro, la tv, il consumismo, la scuola, la playstation (che abbiamo comprato con la sdraio).

Solo la vita e l’esempio educano, le parole non bastano. Non basta dire tieni su la schiena, se non additiamo il panorama da guardare oltre la soglia. Il nostro modo di vivere autoreferenziale lancia spesso proclami contraddittori rispetto alla schiena dritta che esigiamo. I bambini allo stadio fanno lo stesso che fanno i padri: e ci scandalizziamo pure? O li multiamo?

C’è però chi reagisce, cito da una delle tante lettere di contenuto analogo che ricevo:

Mi dica, le piace essere un professore? Pensa che abbia ancora un valore, per un professore, essere tale? Io sinceramente odio la scuola e non perché non ami studiare, imparare cose nuove, ma perché mi sento soffocare, quando la prospettiva è entrare in classe ed ascoltare passivamente persone che nel loro mestiere non mettono impegno, che sembrano sempre sull’orlo di una crisi isterica, che non fanno amare ciò che si vantano di insegnare.

Ho solo diciotto anni, che ne so io della vita, di come si svolge un mestiere? Potrebbe chiedermi e dirmi che tutto ciò è una scusa per giustificare il fatto che di studiare non mi va. Sì è vero, non mi va di studiare un argomento che non mi appassiona. Ma non dovrebbe essere proprio quello, il ruolo del professore? Far amare la cultura? Far amare lo studio? No, perché quello che nel mio liceo si fa è imparare a memoria. Ma a Lei non sembrano sbagliati i verbi che vengono usati per capire se si è studiato o meno? Interrogare e ripetere.

Io li odio questi due verbi, Professore, perché interrogare ha perso il suo significato latino, è diventata una minaccia, e alla domanda “La misoginia nella Medea di Euripide” – che neanche è una domanda a dirla tutta – si deve ripetere, come un automa, quello che il professore ha “pazientemente” dettato in classe per un’ora (50 minuti, nei primi dieci era a prendere il caffè col collega di turno) e le altre cinquanta pagine che invece avresti dovuto imparare a memoria a casa.

Io invece vorrei che un professore mi chiedesse “Ma tu della Medea cosa hai capito?”, “Ma perché secondo te Manzoni ha rinnovato completamente il genere del romanzo?”, “Ma quindi a te cosa è rimasto di Hegel?”, e vorrei lo facesse con quella luce che si ha negli occhi quando si fa qualcosa che si ama, per guidarci verso la maturità, quella vera, verso la capacità di guardare con occhio critico la realtà, quella luce che fa scattare dentro la curiosità, una volta a casa, di aprire il libro e capire “Ma quindi cosa voleva trasmettermi D’Annunzio, con tutta ‘sta pioggia?”.

Io guardo i miei professori e in loro vedo tante cose, tranne l’amore verso il proprio mestiere. Più che odiare la scuola, io odio i miei professori. Preferisco passare i pomeriggi a scrivere o visitare una mostra che hanno appena allestito o andare in quella libreria, un po’ nascosta tra le vie del centro, dove posso comprare un libro e sedermi a leggerlo.

Lei la vede intorno a sé la voglia di insegnare, di trasmettere qualcosa a coloro ci si aspetta siano il futuro del nostro Paese? Le vede le loro anime accese, vive, piene di voglia di fare, di dire?

Questa non è una lettera sdraiata, ma la lettera ben dritta di una ragazza all’ultimo anno di liceo, delusa, polemica, in uscita con un cumulo di nozioni in testa e la certezza di sapere chi non diventare. Eppure ne voleva di cultura, di quella che trasforma la vita, cultura indicata infatti come “luce che fa scattare”. Non basterà rispondere che la vita è la fatica di fare “anche” ciò che non appassiona, perché lei la passione non l’ha vista proprio e le sembra di dover fare “solo” ciò che non appassiona, la morte in vita per chiunque, figuriamoci per un diciottenne.

Chiedete ad un ragazzo di oggi quali lezioni frequenta volentieri: vi citerà non l’“in-decente” (professore amicone, complice, che parla di sé e non fa lezione), non l’“in-docente” (colto ma freddissimo), ma il docente che li mette alla prova, che li sfida, che dà molto ed esige molto, che si occupa della loro crescita e non solo dei loro voti, il docente che amano e odiano, e che sceglierebbero autonomamente, se fosse loro consentito. I ragazzi si sdraiano nella scuola degli “in-decenti”, e odiano quella degli “in-docenti” (letteralmente coloro che non-in-segnano anche se conoscono in modo ineccepibile la materia). L’in-docenza si nasconde dietro la ripetizione, la formula vuota, il dovere per il dovere, evita la vita, non la seduce, non per portare gli sdraiati verso noi stessi (triste e inutile beffa), ma per raccontare loro il sole, attraverso la luce di occhi posati sì sulle carte ma altrettanto sulle vite, perché raggiungano -singolarmente e insieme- la loro altezza. Prima di discettare sul ridurre di un anno la scuola italiana, per uniformarci (verso il basso) al resto dei paesi europei (se la sognano una scuola con contenuti come la nostra), dovremmo provare a costruire scuole in cui sia consentito scegliere insegnanti decenti e docenti, come prova a fare qualsiasi mamma che vuole iscrivere il figlio in prima elementare.

Prof 2.0
 
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postato da  Claudio Maffei alle  17:23 | aggiungi commento | commenti presenti [0]



26 Nov 2013
La virtù della felicità
Possiamo affermare che la felicità non dipende dagli eventi esterni; siamo noi che la creiamo con il nostro atteggiamento, prima dentro di noi e poi all'esterno. Che si stia morendo o che si stia nascendo, che ci si stia addormentando o svegliando, che si stia guarendo o che ci si stia ammalando, in un certo senso non cambia assolutamente niente.

È un vizio pernicioso ritenere che la nostra felicità dipenda dagli altri, da qualcosa fuori di noi, e come tutti i vizi anche questo distrugge le buone qualità e rallenta i tempi per realizzare i nostri obiettivi.

Sentirsi soddisfatti non è frutto di mera fortuna, e nemmeno è semplicemente la conseguenza di attività pie o la ricompensa per non essersi abbandonati ad atti empi. La vera felicità è di per sé una virtù da coltivare, parte integrante della nostra intima natura. Quando una persona si sente autenticamente appagata, non subisce il fascino della trasgressione; quando invece è insoddisfatta viene attratta e agganciata da azioni che infrangono l'ordine cosmico; in effetti è quando si soffre che, nel tentativo di lenire il proprio dolore o la propria frustrazione, ci si avvicina a ciò che è pericoloso, moltiplicando le nostre sofferenze.

È sotto l'influsso del dolore che si corre più frequentemente il rischio di prendere decisioni sbagliate, non quando siamo autenticamente felici.

Marco Ferrini
 
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postato da  Claudio Maffei alle  18:18 | aggiungi commento | commenti presenti [0]



16 Nov 2013
“Voi avete gli orologi, noi abbiamo il tempo.

“Dobbiamo ripensare tutta l’organizzazione sociale. Le nostre società non sono preparate ad avere una popolazione così vasta di “anziani giovani”, pieni di energia, di capacità e voglia di fare. Questa vasta popolazione è una risorsa: le “pantere grigie” diventeranno il nostro petrolio. Se sapremo usare la loro materia grigia, avremo a disposizione una risorsa abbondante di qualità, che potrà essere una leva per lo sviluppo, potrà darci una marcia in più per il nostro futuro. Per me, un vero e proprio choc culturale è la differenza di discorso su questo tema dell’invecchiamento, del passare degli anni.

Gli inglesi usano il termine ageing, che non ha alcuna connotazione negativa, ma che indica proprio il proseguire dell’età.

Lo choc culturale, dicevo, è la differenza tra il modo in cui se ne discute in America piuttosto che in Italia. Io, ogni volta che torno in Italia, all’età di 56 anni, ho la sensazione di essere di troppo, perché si parla di me, di quelli come me, della mia generazione, o come un costo o come… un tappo.

Come un costo, perché abbiamo i cosiddetti privilegi (posto fisso, remunerazioni ancora relativamente elevate, ecc.). Soprattutto, ci accingiamo a entrar nell’età della pensione e, quando andremo in pensione noi, sembra che sfasceremo tutto.

Quindi siamo visti come un costo, oppure come un tappo, perché saremmo di ostacolo ai giovani. E’ colpa nostra se i giovani soffrono, non trovano lavoro o vivono nel precariato, perché saremmo noi a occupare i posti a loro destinati.

Io vengo da un paese, gli Stati Uniti, anzi, ho passato un bel pezzo della mia vita in un’area degli USA, la California, San Francisco, la Silicon Valley, che è la patria del giovanilismo per eccellenza. In particolare, vado regolarmente a visitare un luogo che si chiama “The Centre for Longevity” (il Centro per la Longevità), dove non si trovano medici specializzati in geriatria, che si preoccupano dei problemi di prostata. No, al contrario, questo centro, situato presso l’Università di Stanford, è un luogo dove si mettono insieme intelligenze di economia, tecnologia, sociologia, per immaginare come la società debba cambiare in modo da accogliere questa rivoluzione positiva: l’arrivo di una vasta popolazione di pantere grigie (siamo noi), che diventerà il prossimo motore di rilancio.

Ecco, questo mi appassiona: il fatto che proprio in una zona della California, che non è certamente ostile ai giovani (anzi, tutt’altro!), l’avvento della seconda età dei baby-boomer non è ostacolato, anzi, è pensato, studiato, immaginato come una straordinaria opportunità positiva, al punto che dobbiamo metterci insieme, per pensare che cosa farne, di questa risorsa.

Ciò che è assurdo dell’approccio italiano sta proprio nel fatto che il fenomeno demografico sia stato sequestrato dai tecnici della finanza previdenziale. Un’angolatura ridottissima, un immiserimento di un tema gigantesco, che viene visto solo attraverso questa lente: che cosa succederà ai conti dell’Inps?

Con il paradosso che, in Italia, un evento positivo, come il fatto che si viva più a lungo, diventi lugubre, che se ne dia una lettura cupa e opprimente.

Gli americani, al contrario, lo vedono semplicemente facendo i conti: l’allungamento della speranza di vita, spalmata su questa popolazione, significa che abbiamo a disposizione centinaia di migliaia di anni di vita umana. E’ una ricchezza meravigliosa.

Ecco, non ha senso che, in Italia, la si veda soltanto come una catastrofe prossima ventura.

Intanto, voglio, prima di tutto, sgomberare il campo da un tragico equivoco italiano. E’ quasi una impostura, una frode, quella che rappresenta, nel nostro paese, la situazione economica attuale, la situazione del mercato del lavoro, come una guerra tra generazioni, con questa idea, che, per fare largo ai giovani, dobbiamo per forza cacciar via i cinquantenni. Dico che è passata nei fatti perché fior di settori industriali, tante aziende importanti, confrontandosi con la crisi, hanno scelto la leva dei prepensionamenti, decidendo di cacciar via i cinquantenni, come ammortizzatore sociale, proprio mentre l’età legale della pensionabilità si stava allungando.

Quante di queste aziende hanno poi scelto effettivamente di assumere ventenni?

Non a caso, i paesi dove c’è meno disoccupazione giovanile sono quelli dove si lavora più a lungo, perché il lavoro non è una torta fissa da spartire, in una logica della scarsità e della penuria. Viceversa, il lavoro è una ricchezza elastica. Più a lungo si lavora, più quelli che lavorano a lungo riescono a creare ricchezza, e questa ricchezza va a vantaggio di altri, crea potere d’acquisto, nuove idee di cui i giovani si possono avvalere.

L’America, vista dal mercato del lavoro, è il paese che già sposta l’età pensionabile ai settant’anni. Soprattutto, sta di fatto eliminando l’idea stessa di età pensionabile. In America, un’età obbligatoria, per legge, per andare in pensione, non esiste più, salvo in pochi settori di pubblico impiego.

La pensione è “à la carte”: si lavora finché si ha voglia o bisogno.

Naturalmente, ci sono le due facce della medaglia. L’impatto dell’ultima recessione è stato tale che, facendosi i conti in tasca, alcuni sessantenni hanno deciso che dovevano lavorare a lungo per aumentare la consistenza del proprio fondo pensione, mentre, più spesso, c’è la scelta, per volontà, di allungare l’età lavorativa. Ci sono poi altri fenomeni interessanti.

Prima di tutto, c’è il ritorno delle pantere grigie all’università, la formazione permanente, prolungata ben oltre i cinquanta-sessant’anni.

Solo nell’ultimo biennio, è aumentata del 17% la percentuale di iscritti all’università che hanno più di 55 anni. Questi tornano all’università, in vista di una seconda età lavorativa, per fare il pieno di conoscenze professionali che servono rientrare nel circuito produttivo, a cambiare lavoro, a immaginare una seconda età adulta, in cui l’attività professionale sarà diversa da quella svolta nella prima età adulta.

Di questa idea, vedo applicazioni interessanti in Italia, se solo riuscissimo a liberarci della distorsione italiana che vede gli ultra cinquantenni-sessantenni come un tappo che impedisce ai giovani di emergere. Al contrario, dalle idee, dalle iniziative delle pantere grigie possono nascere, in tanti settori dormienti dell’economia italiana, nuove imprese, nuove attività, che potranno finalmente fornire ai giovani uno sbocco.

Perdere il lavoro a cinquant’anni non è mai facile, sotto ogni latitudine. Non è mai una situazione facile. Tuttavia, la differenza di impatto tra America e Italia è molto forte. Negli Stati Uniti, il mercato del lavoro ha attraversato una fase pesante dopo la recessione del 2009. Tuttavia, non è facilissimo neanche lì, per un cinquantenne, ritrovare lavoro, dopo averlo perso. L’atteggiamento è però profondamente diverso. Intanto, non c’è quella dicotomia tragica tra l’idea del posto fisso e del precariato: il paradiso e l’inferno.

In realtà, negli USA, un po’ tutti siamo precari. Il posto fisso non esiste per nessuno: tutti sono licenziabili. Questo fatto di insicurezza, un po’ universale, al tempo stesso ne riduce la drammaticità. Ma soprattutto, il cinquantenne che perde il lavoro, in America, è abituato a vedersi come una risorsa molto valida, spendibile, e allora una delle prime idee che vengono in mente è di tornare a scuola, di arricchire se stesso di nuovo valore, di conoscenze, di nuove skill, nuovi talenti, andando ad attingere dove ci sono, per esempio all’università, e una forte spiccata attitudine a immaginare una seconda età adulta, in un’ottica di imprenditorialità.

Il pensiero è del tipo: “Non lavoro più in una grande azienda, però so bene tante cose che potrei fare da solo. Posso fare l’imprenditore, posso diventare un consulente, posso distribuire ad altri le mie conoscenze.”. C’è anche una vasta industria di consulenti che insegnano proprio questo. Siccome le opportunità ci sono, il mercato non è razzista nei confronti delle pantere grigie. Esiste, in inglese, il termine “ageism”, il razzismo per età, che è perseguibile per legge. In America, se si viene licenziati per la sola ragione dell’età, in altre parole, è possibile fare causa al proprio datore di lavoro. “
Federico Rampini
 
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postato da  Claudio Maffei alle  23:10 | aggiungi commento | commenti presenti [0]



5 Nov 2013
Francesco Tesei, il mentalista su SKY
«Non faccio miracoli, non sono un mago», dice. Quella di Francesco Tesei è rappresentazione. E’ magia. E’ illusione. E’ condizionamento. E’ gioco. E’ divertimento. Non c’è niente di divinatorio nel mentalismo; niente che non si possa spiegare con la tecnica. Quello che lui propone a teatro, e dall’altra sera su Sky Uno, è una fusione di psicologia, tecniche di comunicazione e illusionismo. Per tre giovedì vanno in onda tre puntate, poi la serie completa di 12 tornerà a gennaio. Nella ripresa dopo la pubblicità, sarebbe bello fosse evitato lo stucchevole riassunto di quel che si è visto all’inizio. E’ un vezzo di molti format, una cosa all’americana da cui sarebbe bello affrancarci. Non siamo mica scemi, che non ricordiamo ciò che abbiamo seguito dieci minuti prima. E se ci agganciamo, capiamo lo stesso. Ma evidentemente la stessa formula si ripete perché, come dice Tesei, siamo prevedibili, simili gli uni agli altri, gli stessi meccanismi cerebrali sono applicabili a tutti. Eppure, il nostro mentalista è didascalico nei suoi esperimenti. Spiega quello che succede, naturalmente non come succede. Qualcosa svela, ma poco: l’altra sera, a esempio, ha raccontato perché il paracadutista con cui si era lanciato aveva scelto per l’atterraggio proprio il telo arancione. Per le restanti «magie», siamo rimasti lì, a bocca aperta e senza comprensione.
Alessandra Comazzi - La Stampa

 
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postato da  Claudio Maffei alle  23:07 | aggiungi commento | commenti presenti [0]



29 Ott 2013
Conoscete i vicini di casa e non sprecate il cibo
Papa Francesco festeggia il suo gregge elettronico, che ha raggiunto 10 milioni di pecorelle. La
somma dei follower nelle varie lingue ha infatti superato quella cifra, e ieri mattina il Pontefice l’ha
annunciato. Non l’ha fatto con un’enciclica, ovviamente, ma con un tweet. Lo stesso in tutte le
lingue, compreso il latino: «Fautores dilecti, centies centum milium numerum vobis
praetergredientibus ex animo gratis ago vosque precor ut pro me orare pergat ». Traduzione: «Cari
Follower ho saputo che siete più di 10 milioni ormai! Vi ringrazio di cuore e vi chiedo di continuare
a pregare per me».
Papa Francesco comunica. Non perché usa Twitter, ma per come lo usa, e per quello che dice.
Consapevole di non avere a disposizione un pulpito, un sagrato o un’aula, ma solo 140 caratteri,
sceglie la brevità, consapevole che lo sforzo della sintesi è un regalo che facciamo a chi legge e chi
ascolta: ce ne sarà riconoscente.
Qualche esempio? «La cultura dello scarto produce molti frutti amari, dallo spreco di alimenti
all’isolamento di tanti anziani» (25 ottobre). «Abbi pietà Signore! Tante volte siamo accecati dalla
nostra vita comoda e non vediamo quelli che muoiono vicino a noi. #Lampedusa» (12 ottobre).
«Cercare la propria felicità nell’avere cose materiali è un modo sicuro per non essere felici» (15
settembre). «A volte si può vivere senza conoscere i vicini di casa: questo non è vivere da cristiani»
(14 settembre). «Non esiste un Cristianesimo “low cost”. Seguire Gesù vuol dire andare contro
corrente, rinunciando al male e all’egoismo» (5 settembre).
Si può fare la differenza con un tweet? Certo: «Mai più la guerra! Mai più la guerra!» (2 settembre,
4.340 retweet) ha contato quanto un discorso alle Nazioni Unite, durante la crisi siriana. Che
differenza con il predecessore! Dal papa tedesco, anche via social network, i cattolici ricevevano
un’incessante lezione di teologia. Dal papa argentino sentono di ottenere stimoli, comprensione e
rassicurazione. Ho scritto qualche giorno (per lettori di lingua inglese): «All you need is love : se
Francesco un giorno citasse John Lennon, non stupitevi».
L’aria nuova, bisogna dire, l’hanno fiutata prima i parroci dei vescovi. Nelle parrocchie — dove la
frequenza alle messe domenicali è scesa sotto il 30% della popolazione — l’hanno capito in fretta:
il nuovo Pontefice riesce a motivare i credenti e provoca il rispetto dei non credenti. Alcuni, per
questione di età e cultura, vengono raggiunti con mezzi tradizionali (dall’associazionismo cattolico
a Eugenio Scalfari). Per altri occorrono mezzi nuovi: le pecore si possono ritrovare anche con lo
scooter, se sono smarrite. Avessero conosciuto il motore a scoppio, gli Evangelisti sarebbero stati
d’accordo.
Papa Francesco sa usare Twitter (uno smartphone, la televisione) perché non ne ha paura. Ha capito
che sono strumenti. Siamo noi a decidere cosa farne, e possiamo farne — tutti, da Papa Francesco
all’ultimo di noi follower — cose ottime; oppure utilizzarli per fare del male e combinare guai. La
Chiesa ha sempre temuto le novità, in tutti i campi, e spesso si è trovata a rincorrere. È vero: non
tutto ciò che è nuovo è buono. E non tutto ciò che è buono è nuovo. Ma molte volte è così.
Il Pontefice non è l’unico, ai vertici della Chiesa cattolica, ad aver capito questo. Anche Gianfranco
Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio per la Cultura, usa Twitter con efficacia. «Sacerdote
& Cardinale» recita il suo profilo. Il tweet più recente, datato 25 ottobre: «Non ho mai visto un
fanatico religioso avere senso dell’umorismo. Né una persona con senso dell’umorismo diventare
un fanatico. (Amos Oz)”». @CardRavasi ha solo 56mila follower in italiano e 6mila in inglese: se si
mantiene su questi standard, merita di più.
Appartengono alla Chiesa cattolica oltre un miliardo di persone, circa la metà dei cristiani del
mondo. C’è ancora molto da twittare, da rincuorare e da rincorrere, caro @Pontifex.
Beppe Severgnini - Corsera
 
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postato da  Claudio Maffei alle  19:10 | aggiungi commento | commenti presenti [0]



8 Ott 2013
Chi è libero di gestire il proprio tempo, di solito, è felice.
Come si fa ad aumentare la produttività?
Semplice: un lavoro si giudica dal risultato, non dal tempo o dal modo impiegato per raggiungerlo.
Ai miei collaboratori, quand’è possibile, e spesso è possibile, non impongo un orario: facciano quel che vogliono, quando vogliono, come vogliono.
L’importante è che lo facciano: in tempo, e bene.
Se una persona trascorre la giornata giochicchiando col tablet, non porterà a termine l’incarico, o lo realizzerà in maniera sciatta.
Il problema, spesso, è nella testa dei datori di lavoro.
Controllare costantemente i dipendenti, per alcuni, è un sottile piacere (con risvolti sadici).
Per altri è solo un errore, che nasce dall’insicurezza.
Se il tipo di lavoro lo consente, meglio lasciare libero chi lavora.
Con me è stato fatto: detesto essere controllato, voglio venir giudicato dai risultati; e i miei capi
(a cominciare da Montanelli) lo hanno sempre capito.
Non solo.
Chi è libero di gestire il proprio tempo, di solito, è felice.
Chi è felice, lavora bene. Chi lavora bene, quasi sempre, produce buoni risultati.

Beppe Severgnini
 
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postato da  Claudio Maffei alle  18:48 | aggiungi commento | commenti presenti [0]



27 Set 2013
Lettera di Dario Fo a Guido Barilla
"Caro Guido Barilla,

Ricordo i primi spot televisivi di Barilla, a cui ho partecipato non solo come attore ma anche come autore dei testi e della sceneggiatura nonché del montaggio. Ebbero un enorme successo e, in quel tempo, ho avuto anche l'occasione di conoscere Pietro, vostro padre.

Una persona piena di creatività ed intelligenza, appassionato d'arte e di cultura.

In quegli spot abbiamo raccontato di prodotti che sono diventati simbolo dell'Italia e degli italiani tutti, nelle nostre case e nel mondo. La pasta soprattutto è sinonimo d'Italia, di casa e di famiglia. Per tutti.

Ecco: oggi il nostro Paese è fatto di tante famiglie unite solo dall'amore delle persone che ne fanno parte. Amore che non è in grado di discriminare, che non ha confini: e l'amore, in tutto il mondo, può nascere tra un uomo e una donna, due donne, due uomini.

Sull'amore si fonda una famiglia, quella che la vostra azienda racconta nella sua comunicazione. Sull'amore si fonda una casa.

Alla domanda sul perché la sua azienda non faccia spot pubblicitari con famiglie gay, lei ha risposto: "Non farei mai uno spot con una famiglia omosessuale. Noi abbiamo un concetto differente rispetto alla famiglia gay. Per noi il concetto di famiglia sacrale rimane un valore fondamentale dell'azienda". Poi, in seguito alle polemiche che si sono scatenate, ha specificato: “Volevo semplicemente sottolineare la centralità del ruolo della donna all'interno della famiglia”. E ancora: “Ho il massimo rispetto per qualunque persona, senza distinzione alcuna. Ho il massimo rispetto per i gay e per la libertà di espressione di chiunque. Ho anche detto e ribadisco che rispetto i matrimoni tra gay. Barilla nelle sue pubblicità rappresenta la famiglia perché questa accoglie chiunque e da sempre si identifica con la nostra marca”

Ecco, Guido. La sua azienda rappresenta l'Italia: nel nostro Paese e in tutto il mondo. Un'Italia che è fatta anche di coppie di fatto, di famiglie allargate, di famiglie con genitori omosessuali e transgender.

Ecco perché le chiedo di cogliere questa occasione e di ritornare allo spirito di quegli spot degli anni '50 dove io stesso interpretavo uno spaccato della società in profondo mutamento. Ecco perché le chiedo di uscire dalla dimensione delle polemiche e farsi ambasciatore della libertà di espressione di tutti.

Mi appello a lei, caro Guido, perchè ha modo di ridare all'Italia di oggi la possibilità di rispecchiarsi nuovamente in uno dei suoi simboli e alla sua azienda di diventare ambasciatore di integrazione e voce del presente. E chiedo quindi che lo faccia con le prossime campagne pubblicitarie del gruppo Barilla, dove la famiglia potrà finalmente essere rappresentata nelle sue infinite e meravigliose forme di questi nostri tempi.

Come ho già scritto: "Buttiamoci con la testa sotto il getto del lavandino e facciamo capire ai briganti che qui siamo ancora in molti in grado di dimostrare di far parte di un contesto di uomini e donne libere e pensanti".

DARIO FO

 
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postato da  Claudio Maffei alle  18:49 | aggiungi commento | commenti presenti [0]



19 Set 2013
Non video più
La prima volta che lo sentii gridare Forza Italia al riparo di una siepe di finti libri rilegati in pelle, ero preoccupato ma incuriosito. Ancora non sapevo che il set era stato montato in un cantiere: se la telecamera avesse allargato l’inquadratura, avremmo scoperto che la scrivania si affacciava su un cumulo profetico di macerie. Quell’uomo d’affari uscito da un telefilm degli Anni Ottanta rappresentava la novità, la sorpresa, per molti la speranza. Ma quando di lì a qualche mese lo rividi arringare il popolo da una videocassetta, lo stupore aveva già ceduto alla delusione. Il terzo filmato produsse sconforto, il quarto fastidio. Non ricordo quando il fastidio si sia trasformato in noia. Io e i suoi video siamo invecchiati insieme: a me cadevano i capelli che crescevano a lui, nella mia libreria i volumi cambiavano mentre nella sua erano sempre gli stessi, miracolosamente intonsi. Logore, invece, le parole: promesse e minacce, sempre più vaghe. Sempre meno riusciva a farmi sorridere e spaventare, alternando la maschera tragica con quella comica sullo sfondo di arredamenti barocchi e bandieroni pomposi.



Ora è tornato a Forza Italia, ma i suoi proclami mi rimbalzano addosso come palline di pongo scagliate da una fionda sfibrata. Vedo le rughe infittirsi, le labbra spezzarsi al pari della voce. Sento parole d’amore che sprizzano livore. Dovrebbe farmi paura e invece non mi fa neanche pena. Solo tanta tristezza: per lui, per me, per noi che da vent’anni scandiamo il tempo delle nostre vite con i videomessaggi di un tizio che ha sostituito la politica con l’epica dei fatti suoi.

Massimo Gramellini - La Stampa
 
Generale
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9 Set 2013
Quale leadership per il futuro?
Oltre trent’anni di mistica della leadership e, per chi vive in azienda, centinaia di ore di corsi di formazione, ci hanno abituato a pensare che questa qualità sia fondamentale per il successo. I manager devono essere leader, leader si nasce o si diventa? e altri aforismi simili ci hanno fedelmente accompagnato mentre tutta l’attenzione veniva focalizzata sulla persona al comando.
Ma è ancora valido questo assioma? L’affondamento della Costa Concordia è solo il caso più recente di fallimento della leadership. Oggi, a guardarsi intorno, si fa veramente fatica a trovare leader di successo che reggano alla prova del tempo. Quasi nessun leader politico del G20 è riuscito a sopravvivere al primo mandato. Persino i più osannati – basti pensare a Obama – vengono rapidamente logorati. Anche i mega manager delle multinazionali cambiano spesso al ritmo delle porte girevoli dell’ingresso. Non mancano poi i casi di imprenditori delle PMI, come di manager di multinazionali (due casi emblematici sono Nokia e Kodak) che portano le proprie imprese sull’orlo del fallimento o anche più in la.
Quale scenario futuro ci aspetta? Quale modello di leadership possiamo ipotizzare?Potremo avere novelli JFK o Henri Ford o De Gasperi o Willy Brandt? O avremo bisogno di questo modello di leader? Quasi sicuramente no, perché il mondo è profondamente cambiato negli ultimi dieci anni.
Due sono i principali aspetti da considerare: la crescita esponenziale della complessità economica, politica, sociale e tecnologica e la democratizzazione della comunicazione garantita dalle tecnologie digitali.
La crescita della complessità, innescata dalla globalizzazione, ha moltiplicato le variabili togliendo qualsiasi certezza ai nessi di causalità: economie totalmente interconnesse, società più fluide e mobili, regole variabili a livello planetario aprono molteplicità di scelte impensabili fino a poco tempo fa. Per esempio, per le aziende italiane è più facile aprire stabilimenti dove il mercato del lavoro è più flessibile piuttosto che discutere sull’Art. 18 in Italia.
Ma la complessità, oltre alla moltiplicazione delle opportunità, ha portato anche la moltiplicazione delle incertezze. Se fino a venti o trent’anni fa un leader, politico o di azienda, poteva ragionevolmente padroneggiare le variabili chiave del proprio incarico, oggi è sempre più difficile. Per gestire un’azienda, grande o piccola che sia, non basta più conoscere il proprio prodotto e mercato ma occorre avere competenze di finanza, di tecnologia, di marketing e di molto altro.
Certo, le grandi aziende, come i governi, hanno – o dovrebbero avere – tutte queste competenze al proprio interno, ma è ancora il leader a plasmarne la strategia sulla base della propria visione, più o meno olistica e con modalità più o meno dirigiste. Il risultato è che, qualsiasi indicazione o consiglio viene comunque filtrato dal leader designato, che decide sulla base delle proprie competenze, esperienze e, fatto più importante, propensione al rischio e a seguire indicazioni di altri in territori che non conosce.
Il secondo aspetto rilevante è la democratizzazione della comunicazione consentito dalle tecnologie digitali e dai Social Network. Oggi il leader è nudo! Non ci sono più rendite di posizione o di status. Controllare e manipolare la comunicazione è diventato impossibile e l’approccio top down unidirezionale che ha creato e sostenuto molti leader nel passato non è più un modello replicabile. Le chiacchiere e le critiche, una volta limitate alla macchina del caffé, oggi hanno portata planetaria. Le primavere arabe hanno mostrato come anche stati in cui il controllo della comunicazione e dell’opinione era ritenuto ferreo, si sono sgretolati in poche settimane sulla spinta della libera circolazione delle informazioni.
L’autorevolezza – per tornare a un altro dei miti fondanti della leadership – non basta più. O meglio, il concetto di autorevolezza è diventato più articolato fino a includere anche etica, apertura al dialogo, capacità di ascolto, onestà, capacità di tenere fede alle promesse, trasparenza, umiltà. Essere leader autorevoli e mantenere questa autorevolezza nel tempo, oggi è estremamente più difficile di venti o trent’anni fa.
La rete ha cambiato i paradigmi sociali e organizzativi. Oggi i modelli vincenti sono quelli basati sulla collaborazione, sulla libera circolazione delle informazioni e sulle reti in cui non esiste un vero e proprio leader, bensì una leadership diffusa in cui le competenze e la credibilità acquisita determinano l’autorevolezza di una persona. In modo destrutturato e flessibile. Una stessa community può così avere più persone di riferimento a seconda delle necessità dei propri membri. E’ l’intelligenza collettiva espressa dalla community nel suo insieme a divenire l’elemento vincente. Sono le persone che dimostrano competenza, spirito di servizio e capacità relazionale a emergere come leader.
A dire il vero non è un modello nato con la Rete. Alcune società arcaiche, come i Boscimani, seguono da millenni questo schema: se la tribù deve andare a caccia, è la persona riconosciuta come più esperta a decidere come muoversi, ma se la tribù deve cercare l’acqua, sarà un’altra persona a guidarla, mentre lo spostamento del villaggio da un punto a un altro è gestito da un’altra persona ancora. Un modello vincente? Beh, i Boscimani esistono da migliaia di anni e non si sono estinti. Sembra un buon punto a favore.
Il concetto chiave, quindi, è divenuto quello della credibilità. Essere leader significa essere credibili, per la propria community di riferimento, rispetto al compito da svolgere. La credibilità, però, non necessariamente si estende a tutto lo scibile e altre persone saranno più credibili su altri compiti. Tante sfide da affrontare, tanti leader credibili per farlo. E’ una rivoluzione copernicana in cui le organizzazioni vincenti saranno sempre meno quelle che si affideranno a un leader globale e sempre più alla leadership diffusa, basata sulla credibilità dimostrata e riconosciuta. In grado quindi di attingere e ottimizzare l’intelligenza collettiva espressa dall’insieme.
Quindi come dovrà essere il leader del futuro? Non sarà più chi ha le risposte giuste, ma chi sa fare le domande giuste. Non più chi ha il know how, ma chi possiede il know who per capire quale sia la risorsa migliore da attivare e ascoltare a seconda del compito e degli obiettivi. Non più chi ha la voce più alta, ma chi ha le orecchie più aperte per cogliere segnali e suggerimenti.
La credibilità – sostituto dell’autorevolezza - deriverà sempre meno dall’ambito professionale e sempre più da quello relazionale, dalla capacità, quindi, non solo di mostrare competenza ma anche di fare da ponte, di connettere e facilitare e, soprattutto, di operare una sintesi efficace.
Il leader del futuro non sarà più una persona sola bensì una comunità di persone in grado di interagire a pari livello per identificare la soluzione più idonea, mettendo in campo le proprie competenze professionali e relazionali. Siamo pronti a questa sfida?
 
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postato da  Claudio Maffei alle  17:29 | aggiungi commento | commenti presenti [0]





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