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Un commento lucido
di : claudio maffei
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Bella la vita!
di : Iris


7 Giu 2012
Bella la vita!
Com’è imbarazzante aver voluto imporre a qualcuno i miei desideri, pur sapendo che i tempi non erano maturi e la persona non era pronta, anche se quella persona ero io.
Oggi so che questo si chiama “rispetto”.

Quando ho cominciato ad amarmi davvero, ho smesso di desiderare un’altra vita e mi sono accorto che tutto ciò che mi circonda è un invito a crescere.
Oggi so che questo si chiama “maturità”.

Quando ho cominciato ad amarmi davvero, ho capito di trovarmi sempre e in ogni occasione, al posto giusto nel momento giusto e che tutto quello che succede va bene.
Da allora ho potuto stare tranquillo.
Oggi so che questo si chiama “stare in pace con se stessi”.

Quando ho cominciato ad amarmi davvero, ho smesso di privarmi del mio tempo libero e di concepire progetti grandiosi per il futuro.
Oggi faccio solo ciò che mi procura gioia e divertimento, ciò che amo e che mi fa ridere, a modo mio e con i miei ritmi.
Oggi so che questo si chiama “sincerità”.

Quanto ho cominciato ad amarmi davvero, mi sono liberato di tutto ciò che non mi faceva del bene: persone, cose, situazioni e tutto ciò che mi tirava verso il basso allontanandomi da me stesso… all’inizio lo chiamavo “sano egoismo”.
Oggi so che questo è “amore di sé”.

Quando ho cominciato ad amarmi davvero, ho smesso di voler avere sempre ragione. E così ho commesso meno errori. Oggi mi sono reso conto che questo si chiama “semplicità”.

Quando ho cominciato ad amarmi davvero, mi sono rifiutato di vivere nel passato e di preoccuparmi per il mio futuro. Ora vivo di più nel momento presente, in cui tutto ha un luogo.
E’ la mia condizione di vita quotidiana e la chiamo “perfezione”.

Quando ho cominciato ad amarmi davvero, mi sono reso conto che il mio pensiero può rendermi miserabile e malato. Ma quando ho chiamato a raccolta le energie del mio cuore, l’intelletto è diventato un compagno importante.
Oggi a questa unione do il nome di “saggezza interiore”.

Non dobbiamo continuare a temere i contrasti, i conflitti e i problemi con noi stessi e con gli altri perché perfino le stelle, a volte, si scontrano fra loro dando origine a nuovi mondi.
Oggi so che tutto questo è “la vita”.

Charlie Chaplin
 
Generale
postato da  Claudio Maffei alle  22:05 | aggiungi commento | commenti presenti [1]



27 Mag 2012
L'anello e la stima
L’Anello e la stima.
Un giorno, non importa quando, non importa dove, un discepolo andò dal suo Maestro con un problema:
- Mi sento una nullità, non ho la forza di reagire. Dicono che sono un buono a nulla, che non faccio niente bene, che sono un idiota. Come posso migliorare? Che posso fare perché mi stimino di più?
- Il Maestro senza guardarlo rispose:
- Mi spiace, ma ora non posso aiutarti. Devo prima risolvere un problema mio. Poi, forse.
- E facendo una pausa aggiunse:
- Se mi aiuti, posso risolvere il mio problema più rapidamente e poi forse posso aiutarti a risolvere il tuo...
- Certo, Maestro! - rispose il discepolo, ma ancora una volta si sentì mortificato.
- Il Maestro si tolse un anello dal mignolo e lo diede al discepolo:
- Monta a cavallo e va al mercato. Devi vendere questo anello perché devo pagare un debito. Occorre ricavarne il più possibile. Ma non accettare meno di una moneta d ’oro. Va e torna con la moneta al più presto!
- Il discepolo prese l’anello e partì.
- Appena giunto al mercato cominciò ad offrire l’anello ai mercanti. Essi guardavano con qualche interesse, finchè il giovane non diceva quanto chiedeva per l ’anello.
- Quando il giovane menzionava una moneta d’oro, alcuni ridevano, altri se ne andavano senza nemmeno guardarlo, e solo un vecchietto fu abbastanza gentile da spiegare che una moneta d’oro era troppo per quell’anello.
- Tentando di venire incontro al giovane, arrivarono ad offrirgli una moneta d’argento e una coppa di rame, ma il giovane seguiva le istruzioni di non accettare meno di una moneta d’oro e rifiutava ogni offerta.
- Dopo aver offerto il gioiello a tutti quelli che passavano per il mercato, abbattuto dal fallimento salì a cavallo e tornò. Rimpiangeva di non avere una moneta d’oro per poter comprare egli stesso l’anello, liberando così dalle preoccupazioni il suo Maestro per poter così ricevere i suoi consigli.
- Entrò in casa e disse:
- Maestro, mi spiace tanto, ma è impossibile ottenere quello che mi hai chiesto. Forse potrei ottenere due o tre monete d ’argento, ma non si dovrebbe ingannare nessuno sul valore dell ’anello.
- E’ importante quello che dici, - rispose sorridendo. Dobbiamo prima saper il valore esatto dell’anello. Torna a cavallo e vai dal gioielliere. Chiedigli a quanto si può vendere l’anello. Ma non importa quanto lo valuterà, non venderlo. Riportalo qui.
- Il giovane andò dal gioielliere e gli chiese di valutare l’anello. Il gioielliere esaminò l’anello con una lente, lo pesò e disse:
- Di’ al tuo Maestro che se vuole venderlo subito non posso dargli più di 58 monete d ’oro.
- 58 MONETE D ’ORO! - esclamò il giovane.
- Sì, rispose il gioielliere, in un altro momento potrei arrivare ad offrire anche settanta monete, ma se ha urgenza di vendere...
- Il giovane corse emozionato a casa del Maestro per raccontare quel che era successo.
- Siediti, disse il Saggio. E dopo aver ascoltato tutto il racconto, parlò con calma:
- Tu sei come questo anello, un gioiello prezioso e unico. Può essere valutato solo da un esperto. Pensavi forse che persone qualsiasi avrebbero potuto scoprire il suo vero valore?
- Così dicendo, si rimise l’anello al dito.
- Tutti noi siamo come quel gioiello. Preziosi e unici, andiamo per tutti i mercati della vita pretendendo che persone inesperte ci valutino. Solo Uno Specialista, Dio, il Grande Gioielliere, conosce il tuo vero valore. Perciò, non accettare mai che la vita smentisca questo...
-
Riflessioni:
Gli altri danno la loro valutazione su quella che è la nostra vita, i nostri comportamenti, le nostre scelte, le nostre azioni… il nostro modo d’essere…
E noi viviamo la vita oscillando tra gioia e tristezza a seconda della valutazione che gli altri ci danno…
…quindi viviamo la vita che gli altri ci costruiscono…
Da oggi cambia…vivi la tua vita e non permettere agli altri di gestire le tue emozioni…
La vita è TUA ed il giusto valore lo conosce solo la tua Anima…nessun altro!
«Nessuno può farti sentire infelice se non glielo consenti.» (T. Roosevelt)
 
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postato da  Claudio Maffei alle  21:56 | aggiungi commento | commenti presenti [0]



19 Mag 2012
Dal burlone al dominatore. Ecco i killer delle riunioni

Burloni e dominatori, se le riunioni non finiscono mai
Vi siete mai divertiti alle riunioni di lavoro, quei meeting interminabili dove vi pare che le idee buone vengano perlopiù impallinate, e quelle mediocri esaltate, peggio che in un'assemblea di condominio di fantozziana memoria? Se sì, provate, la prossima volta che vi capita di annoiarvi, a pensare a queste cinque tipologie di ammazza-riunione, che sono state individuate, ritratte e analizzate dall'editorialista Sue Shellenbarger sul Wall Street Journal . E per tirarvi su, cercate di incasellare in una delle seguenti fenomenologie il boicottatore organizzato di turno. C'è, prima di tutto, il Dominatore, che ha una grande considerazione delle sue idee, e che interrompe di continuo per esprimerle. Poi viene lo Scettico, quello o quella che coltiva la negatività nel cuore, e che aspetta fino a che il consenso è quasi raggiunto per buttare lì un dubbio epocale al quale è impossibile rispondere.

Due tipologie, queste, considerate ad alto tasso di molestia, che vanno neutralizzate con fermezza anche per risollevare gli animi dei colleghi, dicendo per esempio: «Perché ti decidi solo ora a porre questa domanda? Non potevi pensarci prima?» e andare oltre, come suggerisce Brenna Smith Patty Johnson, esperta di lavoro e fondatrice della società di consulenza PeopleResults. Appena dopo queste due personalità, nella scala dei killer da riunione, arriva il Divagatore, che se gli lasci la palla la prende così alla larga che condanna al sonno o alla fuga la maggior parte dei presenti. Uscendo per un attimo dalla fenomenologia aziendale ed entrando nella mitologia politica, si narra che durante i lavori della Bicamerale Massimo D'Alema, vicino allo sfinimento, decise di cronometrare i discorsi del senatore Francesco D'Onofrio nonché a iniziare a deliziarci con i suoi origami, per scaricarsi un po'.

Più pragmatici, alcuni capi d'azienda contemporanei, sostengono che il Divagatore vada piuttosto distratto, distribuendogli ogni tanto noccioline o, meglio, piccoli cioccolatini, cosa che ha fatto con un certo successo Samir Penkar, consulente di Minneapolis alle prese con due impiegati disturbatori, domati dopo due settimane a colpi di golosità. Poco sotto al Divagatore aziendale compaiono nella scala per tasso di disturbo il Burlone che interrompe di continuo con le sue battute fuori contesto e aspetta che gli altri ridano, e il Complottista un po' musone, quello che se ne sta silente in fondo alla sala per poi svegliarsi alla fine, alla macchinetta del caffè, dicendo che era tutto da rifare e vaticinando scenari apocalittici per l'azienda.

Il problema è che, al di là della fenomenologia delle riunioni, si tengono nel mondo lavorativo troppe riunioni, in media 4 ore alla settimana, ed è il principale motivo di insoddisfazione per gli impiegati, al primo posto per il 47 per cento, secondo una ricerca di Salary.com (nel 2008 era al terzo). «La riunione è un gran teatro per dare sfogo alle personalità, e in Italia potremmo aggiungere altri tipi, il buffone, il leccapiedi, l'assenteista» dice il sociologo Domenico De Masi. «Ma è anche un grande alibi, la scena dove si rappresenta quel dramma tragico-comico che spesso è l'azienda, e a volte a tirarla in lungo sono proprio i manager latini che cercano scuse per stare in ufficio perché non amano la famiglia e a casa s'annoiano». E fa notare De Masi che, a differenza dei nostri manager tiratardi, quelli dei Paesi più avanzati in Europa, tedeschi in testa, escono alle 5 del pomeriggio.

Ma per scoraggiare tutti, manager e impiegati, e tenersi lontano dalla riunione-monstre, c'è un sistema infallibile che attiene al disagio fisico e che funziona sotto ogni latitudine: mettere il tavolo da riunioni sotto un gelido soffione di aria condizionata e abbassare il termostato nella stanza a 10 gradi prima delle riunione.
Maria Luisa Agnese - Corsera

 
Generale
postato da  Claudio Maffei alle  10:41 | aggiungi commento | commenti presenti [0]



9 Mag 2012
Spiati 72 anni per scoprire la felicità
NEW YORK — Qual è il segreto della felicità? È possibile, a 20 anni, profetizzare chi è destinato ad una vita lunga, sana e appagante e chi invece morirà presto dopo un’esistenza tormentata? Da 72 anni la prestigiosa università di Harvard cerca di rispondere a queste complesse domande attraverso il Grant Study, il più lungo studio del genere mai realizzato fino ad oggi, proprio allo scopo di chiarire i misteri dietro l’anelito che agita l’umanità, sin dagli albori della storia.
E la risposta che offrono i ricercatori è molto semplice: la felicità è amore. Solo chi ama ed è amato non solo dal partner, ma anche da genitori, amici, fratelli, sorelle può essere felice e aspirare ad una vita serena.
«La ricerca medica presta troppa attenzione ai malati e troppo poca alla gente sana», teorizzò nel 1938 lo psichiatra di Harvard Arlie Bock nel dare ufficialmente il via al Grant Study, dal nome del suo ricchissimo sponsor, il magnate dei grandi magazzini W.T. Grant. Per studiare il segreto della felicità e la sua evoluzione attraverso le varie fasi della vita, Bock selezionò 268 tra gli studenti più brillanti, ambiziosi e privilegiati di Harvard, impegnandosi a seguirli attraverso carriere, guerre, matrimoni, divorzi, nipoti e malattie, fino alla morte.
Harvard a quei tempi era una enclave per soli maschi ricchi — l’elite Wasp del New England — e tra i soggetti studiati quattro diventarono senatori, uno ministro, la maggior parte capitani d’industria. Ci fu anche un presidente, John Kennedy (ma il suo dossier non potrà essere aperto prima del 2040), un grande giornalista — Ben Bradlee, direttore del Washington Post durante lo scandalo Watergate — e uno scrittore famoso, forse Norman Mailer.
Ma i nomi — protetti dalla privacy — della maggior parte resteranno per sempre un mistero. Persino Joshua Wolf Shenk, il primo giornalista a visionare gli archivi del Grant Study, è stato costretto nel lungo saggio pubblicato sulla rivista americana The Atlantic a tacere la loro identità. Ma alla fine Shenk condivide i risultati complessi e spesso contraddittori di George Vaillant, il 74enne psichiatra di Harvard che trent’anni fa assunse le redini dello studio, quando molti dei suoi promettenti giovani erano già finiti sulla cattiva strada.
Ironicamente un’indagine parallela condotta da Harvard dal 1940 su un campione di 456 proletari dei ghetti di Boston — il Glueck Study — giunge a risultati pressoché identici. Compiuti i 50 anni, oltre un terzo del privilegiato campione tradiva sintomi di malattia mentale, alcolismo e dipendenza ai farmaci. Un numero sproporzionato morì prematuramente, spesso suicidandosi. Arlie Bock era sconcertato: «Quando li avevo scelti erano normalissimi», rivela a Vaillant in uno dei documenti recuperati da Shenk.
Eppure la metodologia seguita dallo studio era rigorosa.
Grazie a generose donazioni federali e private per pagare le costose ricerche, ogni due anni Vaillant chiedeva ai partecipanti di compilare un questionario con domande relative alla loro salute fisica e mentale, la qualità del loro matrimonio, figli, carriera, malattie e pensione. Ogni cinque li sottoponeva a check-up, facendosi consegnare le cartelle cliniche dai loro medici. E ogni quindici anni i soggetti dovevano rilasciare approfondite interviste, rispondendo a domande di natura personale su ogni aspetto della loro vita pratica ed emotiva.
La preoccupazione centrale di Vaillant? «Studiare non tanto le problematiche dei soggetti, ma piuttosto il modo in cui essi reagivano a tali problematiche — spiega Shenk — La sua lente interpretativa passava attraverso la metafora psicanalitica di adattamento o risposta inconscia al dolore, ai conflitti, e all’incertezza».
Lo studente che all’inizio gli era apparso più dotato e promettente di tutti è il primo a fare una brutta fine. Dopo un’infanzia da sogno in una grande casa con undici stanze e tre bagni, l’uomo — figlio di un ricco dottore e di un’artista ed ereditiera - si sposò e fece carriera all’estero. «Ma poi cominciasti a fumare e a bere — annota diligentemente Vaillant nel suo taccuino —. A 35 anni sei sparito, smettendo di rispondere ai nostri questionari. Più tardi ci hanno informati che eri morto all’improvviso».
Un altro uomo, considerato il clown del gruppo per la sua personalità effervescente ed estroversa, ha finito per sposarsi tre volte e ha fatto tre figli ed innumerevoli mestieri diversi prima di accettare la propria omosessualità, diventando un leader di spicco nel movimento per i diritti dei gay. Ma ormai era troppo tardi e morì a 64 anni, alcolizzato, cadendo dalle scale ubriaco fradicio.
Ma il soggetto più intrigante di tutti, secondo Shenk, è lo stesso Vaillant, il geniale ed eccentrico scienziato di Harvard (talvolta si presentava in ufficio in pantofole) considerato l’anima dietro un progetto che, in assenza di registrazioni, si avvale esclusivamente delle sue note e personalissime interpretazioni. Nato da una delle famiglie più antiche e aristocratiche del New England, Vaillant restò orfano a 10 anni quando il padre, un uomo di successo e all’apparenza felice, si sparò un colpo alla tempia ai bordi della piscina. «Sua madre gettò una coltre di silenzio sull’accaduto — rivela Shenk — non vi fu servizio funebre e non rimisero mai più piede in quella villa». Dopo ben tre divorzi, lo psichiatra è tornato con la seconda moglie anche se i suoi figli descrivono la vita col padre come «una guerra civile» e rivelano di aver passato anni senza rivolgergli la parola. «I suoi amici più cari affermano che non sa gestire i suoi rapporti affettivi e la sua intimità», dice Shenk.
Anche per questo le conclusioni cui giunge sono emblematiche: «L’amicizia, l’amore e le buone relazioni con fratelli, sorelle e genitori, sono la vera chiave della felicità — dichiara Vaillant — la felicità è amore. Punto e basta».
Shenk è meno perentorio: «Lo studio è iniziato proponendosi di analizzare le vite di quegli individui sotto la lente di un microscopio — scrive sull’Atlantic — Ma alla fine quelle vite erano troppo grandi, troppo strane e troppo ricche di sfumature e contraddizioni per essere etichettate».
Alessandra Farkas
 
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postato da  Claudio Maffei alle  10:55 | aggiungi commento | commenti presenti [0]



1 Mag 2012
I 18 principi di vita del Dalai Lama
1)Tieni sempre conto del fatto che un grande amore e dei grandi risultati comportano grandi rischi.
2)Quando perdi, non perdere la lezione.
3)Segui sempre le tre “R”: rispetto per te stesso, rispetto per gli altri, responsabilità per le tue azioni.
4)Ricorda che non ottenere quel che si vuole può essere, talvolta, un meraviglioso colpo di fortuna.
5)Impara le regole, affinché tu possa infrangerle in modo appropriato.
6)Non permettere che una piccola disputa danneggi una grande amicizia.
7)Quando ti accorgi di aver commesso un errore fai subito qualcosa per correggerlo.
8)Trascorri un po’ di tempo da solo, ogni giorno.
9)Apri le braccia al cambiamento, ma non lasciare andare i tuoi valori.
10)Ricorda che talvolta il silenzio è la migliore risposta.
11)Vivi una buona, onorevole vita, di modo che, quando ci ripenserai da vecchio, potrai godertela una seconda volta.
12)Un’atmosfera amorevole nella tua casa deve essere il fondamento della tua vita.
13)Quando ti trovi in disaccordo con le persone a te care, affronta soltanto il problema attuale, senza tirare in ballo il passato.
14)Condividi la tua conoscenza. E’ un modo di raggiungere l’immortalità.
15)Sii gentile con la Terra.
16)Almeno una volta all’anno vai in un posto dove non sei mai stato prima.
17)Ricorda che il miglior rapporto è quello in cui ci si ama di più di quanto si abbia bisogno l’uno dell’altro.
18)Giudica il tuo successo in relazione a ciò a cui hai dovuto rinunciare per ottenerlo.
 
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postato da  Claudio Maffei alle  14:16 | aggiungi commento | commenti presenti [0]



23 Apr 2012
L'albero degli amici
Esistono persone nelle nostre vite che ci rendono felici per il semplice caso di avere incrociato il nostro cammino.
Alcuni percorrono il cammino al nostro fianco, vedendo molte lune passare, gli altri li vediamo appena tra un passo e l'altro. Tutti li chiamiamo amici e ce sono di molti tipi.
Talvolta ciascuna foglia di un albero rappresenta uno dei nostri amici.
Il primo che nasce è il nostro amico Papà e la nostra amica Mamma, che ci mostrano cosa è la vita. Dopo vengono gli amici Fratelli, con i quali dividiamo il nostro spazio affinché possano fiorire come noi. Conosciamo tutta la famiglia delle foglie che rispettiamo e a cui auguriamo ogni bene.
Ma il destino ci presenta ad altri amici che non sapevamo avrebbero incrociato il nostro cammino. Molti di loro li chiamiamo amici dell'anima, del cuore.
Sono sinceri, sono veri. Sanno quando non stiamo bene, sanno cosa ci fa felici.
E alle volte uno di questi amici dell'anima si installa nel nostro cuore e allora lo chiamiamo innamorato. Egli da luce ai nostri occhi, musica alle nostre labbra, salti ai nostri piedi.
Ma ci sono anche quegli amici di passaggio, talvolta una vacanza o un giorno un'ora. Essi collocano un sorriso nel nostro viso per tutto il tempo che stiamo con loro.
Non possiamo dimenticare gli amici distanti, quelli che stanno nelle punte dei rami e che quando il vento soffia appaiono sempre tra una foglia e l'altra.
Il tempo passa, l'estate se ne va, l'autunno si avvicina e perdiamo alcune delle nostre foglie, alcune nascono l'estate dopo, e altre permangono per molte stagioni.
Ma quello che ci lascia felici è che le foglie che sono cadute continuano a vivere con noi, alimentando le nostre radici con allegria.
Sono ricordi di momenti meravigliosi di quando incrociarono il nostro cammino.
Ti auguro, foglia del mio albero, pace amore fortuna e prosperità. Oggi e sempre........ semplicemente perché ogni persona che passa nella nostra vita è unica.
Sempre lascia un poco di sè e prende un poco di noi. Ci saranno quelli che prendono molto, ma non ci sarà chi non lascia niente.
Questa è la maggior responsabilità della nostra vita e la prova evidente che due anime non si incontrano per caso.
Questa lettera è stata scritta da Paul Montes, missionario sud-americano
 
Generale
postato da  Claudio Maffei alle  18:38 | aggiungi commento | commenti presenti [0]



15 Apr 2012
Le volpi in posa per pane e nutella
Ci dice la giovane guida del Parco naturale, che qui sulla spiaggia di Alberese le volpi hanno imparato a mettersi in posa per le foto. Sanno che avranno da mangiare se si lasciano fotografare dai turisti perciò quando li sentono arrivare escono dalla duna e si mettono sedute ferme, con la bella coda in primo piano. I bambini si avvicinano, i genitori scattano, poi danno agli animali un pezzo di panino con nutella, una fetta di salame, una merendina farcita. La guida dice che tutto questo è ovviamente sbagliato e pericoloso: quel genere di cibo fa male alle volpi, e prendere troppa confidenza con loro è rischioso, perché non cessano di essere animali selvatici, ma soprattutto, aggiunge, "è molto triste vedere le volpi mettersi in posa per avere un panino. In fondo così si addomesticano e alla fine smettono di essere vere volpi". È incomprensibile come mai ciò che si capisce a proposito di animali non si riesca ad applicarlo agli uomini. Anche di certi uomini (molti) è triste vederli metter- si in posa per un panino. È vero che venir bene in tv e atteggiarsi per un servizio da rivista nel proprio salotto accresce il guadagno immediato: il panino. Però si perde, alla fine, il bandolo della propria identità. Si rinuncia a essere volpi. A margine del congresso di Rifondazione, di cui Nichi Vendola, prima di ritirarsi dalla corsa per la segreteria, ha detto "ci sarebbe da chiamare il 113, questo non è un partito, è una comunità terapeutica", leggo che la sinistra, a Firenze, si è spaccata sul ritiro del bando di esilio a Dante. L'episodio risale al 1302: sette secoli dopo un paio di consiglieri del Popolo delle libertà propongono la riabilitazione. È solo "marketing culturale", protestano Rifondazione e la sinistra della sinistra. Il Pd sarebbe stato favorevole, ma la proposta di annullare un bando del 1300 è ormai teatro di faide politiche di provincia. Pazienza per Dante, neppure il suo ventesimo pronipote Serego Alighieri sente il bisogno di un gesto "mortificato da polemiche di così bassa lega". Iniziativa ritirata: il Sommo, decretano i radicali di sinistra, deve restare in esilio. Barak Obama dice che dedica un'ora al giorno al silenzio e al pensiero. La mette proprio in agenda: un'ora vuota, "altrimenti perdi il senso di quello che stai facendo". Chissà se gli basterà, auguri. È comunque un buon consiglio per tutti. In una bellissima intervista di Paolo D'Agostini anche Ermanno Olmi parla del silenzio e della lentezza come antidoto al non senso generale. In un passaggio dice due parole sulla Lega, le riporto qui per coloro ai quali fossero sfuggite. "La Lega fa leva su un fastidio, un risentimento. Cosa l'ha alimentato? Quando le popolazioni, anche quelle del Nord, vivevano in uno stato quasi miserabile, l'unico che ti poteva salvare era il Padreterno. E tutti giù a pregare. Oggi fa sorridere ma quel pregare era un modo per darsi un aiuto, come il canto degli schiavi negri. Quella società povera, con la trasformazione industriale, è diventata una società non sempre ricca, ma pervasa da un benessere generale. Che c'è stato, per un momento. Si è sbagliato a fare i conti, a livelli alti della politica e dell'economia. Oggi si è di fronte a un baratro di possibile nuova povertà, avendo oltretutto distrutto la terra. Qual è il risentimento, allora? Tutte queste persone che oggi votano Lega, ma nell'infanzia hanno vissuto quella povertà e hanno conosciuto il beneficio di un benessere sia pur fasullo, se lo vedono messo in discussione dal dover dividere la ricchezza con quelli che ricchi ancora non sono. Chi erano i kapò nei campi di concentramento? Gli stessi prigionieri. Quanti contadini sono diventati piccoli imprenditori? La Lega ha sfruttato il loro risentimento. Quando parlano di sicurezza intendono che colui che potrebbe sottrarmi qualcosa va allontanato. Parlano di sicurezza come dei kapò, mettendo il filo spinato". Auguri anche a Olmi.
Concita De Gregorio
 
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postato da  Claudio Maffei alle  22:35 | aggiungi commento | commenti presenti [0]



9 Apr 2012
L'uovo di Pasqua lo porta il leprotto!
C'erano una volta un papà leprotto ed una mamma leprotto, che avevano sette leprottini e non sapevano quale sarebbe diventato il vero leprotto di Pasqua. Allora mamma leprotto prese un cestino con sette uova e papà leprotto chiamò i leprottini. Poi disse al più grande: "Prendi un uovo dal cestino e portalo nel giardino della casa, dove ci sono molti bambini."
Il leprotto più grande prese l'uovo d'oro, corse nel bosco, attraversò il ruscello, uscì dal bosco, corse per il prato e giunse al giardino della casa. Qui voleva saltare oltre il cancello, ma fece un balzo così grande e con tanta forza che l'uovo cadde e si ruppe.
Questo non era il vero leprotto di Pasqua.
Ora toccava al secondo. Egli prese l'uovo d'argento, corse via nel bosco, attraversò il ruscello, uscì dal bosco, corse per il prato; allora la gazza gridò "Dallo a me l'uovo, dallo a me l'uovo, ti regalerò una moneta d'argento!" E prima che il leprotto se ne accorgesse la gazza aveva già portato l'uovo d'argento nel suo nido.
Neanche questo era il vero leprotto di Pasqua.
Ora toccava al terzo. Questi prese l'uovo di cioccolato. Corse nel bosco, attraversò il ruscello, uscì dal bosco e incontrò uno scoiattolo che scendeva, saltellando, da un alto abete. Lo scoiattolo spalancò gli occhi e chiese: "Ma è buono l'uovo?"
"Non lo so," rispose il leprotto, "lo voglio portare ai bambini."
"Lasciami assaggiare un po'!"
Lo scoiattolo cominciò a leccare e poiché gli piaceva tanto, non finiva mai e leccò e mangiucchiò pure il leprotto, fino a che dell'uovo non rimase più nulla; quando il terzo leprotto tornò a casa, mamma leprotto lo tirò per la barba ancora piena di cioccolato e disse: "Neanche tu sei il vero leprotto di Pasqua."
Ora toccava al quarto.
Il leprottino prese l'uovo chiazzato. Con quest'uovo corse nel bosco e arrivò al ruscello. Saltò sul ramo d'albero posto di traverso, ma nel mezzo di fermò. Guardò giù e si vide nel ruscello come in uno specchio. E mentre così si guardava, l'uovo cadde nell'acqua con gran fragore.
Neanche questo era il vero leprotto di Pasqua.
Ora toccava al quinto. Il quinto prese l'uovo giallo. Corse nel bosco e, ancor prima di giungere al ruscello, incontrò la volpe, che disse: "Su, viene con me nella mia tana a mostrare ai miei piccoli questo bell'uovo!"
I piccoli volpacchiotti si misero a giocare con l'uovo, finché questo urtò contro un sasso e si ruppe.
Il leprotto corse svelto svelto a casa, con le orecchie basse.
Neanche lui era il vero leprotto di Pasqua.
Ora toccava al sesto. Il sesto leprotto prese l'uovo rosso. Con l'uovo rosso corse nel bosco. Incontrò per via un altro leprotto. Appoggiò il suo uovo sul sentiero e presero ad azzuffarsi.
Si diedero grandi zampate, e alla fine l'altro se la diede a gambe.
Ma quando il leprottino cercò il suo uovo, era già bell'e calpestato, ridotto in mille pezzi.
Neanche lui era il vero leprotto di Pasqua.
Ora toccava al settimo. Il leprotto più giovane ed anche il più piccolo. Egli prese l'uovo blu. Con l'uovo blu corse nel bosco.
Per via, incontrò un altro leprotto, ma lo lasciò passare e continuò la sua corsa. Venne la volpe. Il nostro leprotto fece un paio di salti in qua e in là e continuò a correre, finché giunse al ruscello.
Con lievi salti lo attraversò, passando sul tronco dell'albero.
Venne lo scoiattolo, ma egli continuò a correre e giunse al prato.
Quando la gazza strillò, egli disse soltanto: "Non mi posso fermare, non mi posso fermare!"
Finalmente giunse al giardino della casa. Il cancello era chiuso. Allora fece un salto, né troppo grande né troppo piccolo, e depose l'uovo nel nido che i bambini avevano preparato.
Questo era il vero leprotto di Pasqua!
 
Generale
postato da  Claudio Maffei alle  11:48 | aggiungi commento | commenti presenti [0]



1 Apr 2012
La giornata del sorriso una volta al mese
Caro direttore, il mio percorso tra casa e ufficio, a Milano, è di 15 minuti a piedi. Ho l' abitudine di fermarmi per un caffè. Passo davanti ad otto bar tra cui posso scegliere. Li ho provati tutti, alla fine ho scelto quello dove il barista mi accoglie, ogni volta, con un sorriso. Forse il caffè non è il migliore, ma un sorriso vale, in questi tempi complicati, più della qualità del caffè. La giornata inizia sotto un altro segno. Ultimamente chiedo ai miei collaboratori di darmi solo buone notizie, o almeno di iniziare da quelle. La reazione all' inizio è di sconcerto poi, parlandone, ci accorgiamo che le buone notizie possono essere tante, dalla primavera anticipata, alla salute di ciascuno, fino anche a concentrarci sulla parte piena del bicchiere dando meno peso a quella vuota. Chi si occupa di comunicazione sa che l' umore è contagioso, chi fa pubblicità lavora, non a caso, soprattutto sulle emozioni. L' istituto di neuroscienze dell' Università di Parma ha scoperto, anni fa, che nel nostro cervello esistono i «neuroni specchio», cellule nervose che risuonano con l' ambiente esterno generando comportamenti, appunto, «a specchio» rendendo, ad esempio, contagioso il sorriso, così come, purtroppo, anche la depressione e la malinconia. Perché non trasformare, allora, un giorno al mese, magari il primo lunedì, in un «good day», nella giornata in cui tutti si impegnano a sorridere agli altri e a dare solo buone notizie. Sono certo che l' inversione della polarità dell' umore generale porterebbe benefici inaspettati e forse ci aiuterebbe a rendere più sopportabile questa crisi senza precedenti in cui ci dibattiamo senza che, al momento, appaiano all' orizzonte concrete vie d' uscita. Mi rendo conto di quanto questa proposta sia infantile ed utopistica, ma se ha generato un sorriso nel lettore, non sarà stata del tutto inutile.
Lorenzo Sassoli de’ Bianchi
 
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23 Mar 2012
In memoria di Fata Prosciutto
Fra i tanti articoli indispensabili che uno si illude di aver scritto, il Buongiorno che ha avuto storicamente il maggior numero di reazioni da parte dei lettori è uno squarcio di vita quotidiana pubblicato nel novembre del 2008. Raccontava della salumiera di un mercato di Torino, la signora Kathy, che ogni giorno, alle 13 e 40, riceveva la visita degli alunni di una scuola media poco distante e a ciascuno offriva un sorriso e una fetta di prosciutto. La signora Kathy non era una missionaria e i ragazzini non erano dei bisognosi. Eppure quel rito quotidiano di assurda e gratuita bontà aveva una sua magia e ogni giorno, alle 13 e 40, i clienti del mercato posavano le borse della spesa e guardavano in direzione della scuola, chiedendosi: ma i ragazzi quando arrivano?

Arrivavano, arrivavano sempre. E continuarono a farlo anche dopo l’uscita dell’articolo. Finché un giorno, alle 13 e 40, sono corsi al bancone ma non hanno più trovato ad accoglierli il sorriso della signora Kathy, ribattezzata Fata Prosciutto. Si era ammalata. I ragazzini hanno continuato lo stesso a recarsi al bancone: non più per il prosciutto, ma per avere sue notizie. Le mandavano saluti, pensieri, preghiere. E quando l’altra settimana la Fata se n’è andata - perché le fate hanno molto da fare, non possono stare sempre con noi - la chiesa del funerale era stracolma come per una principessa e anche il prete si è commosso. Basta davvero poco per comunicare con il cuore del mondo. È un linguaggio universale che non usa le parole, ma i gesti. A volte anche una fetta di prosciutto.
Massimo Gramellini - La Stampa
 
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