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12 Ott 2009
Il futuro che ci aspetta


Sto spesso pensando a che futuro ci aspetta.
Più spesso penso a che futuro spetterà ai nostri figli.
Inutile dire che esco spesso da questi momenti di riflessione con le idee confuse.
A volte depresso.
A volte felice.
Oggi è domenica e ho qualche ora libera.
Mi sono riproposto di fare un minimo di chiarezza.
Per quanto difficile e inutile possa sembrarmi.
Eccone il frutto.
Il futuro, almeno per noi occidentali, sarà o è già diverso da tutto ciò che già conosciamo.
Tutto quello che è successo e che sta succedendo indica che il mondo per come lo conosciamo noi, ha messo la freccia e sta svoltando.
Tanto per essere chiari partiamo da alcune premesse poco discutibili:
La crisi finanziaria, lontana dall’avere esaurito i suoi effetti;
I cambi climatici, che oltre ad essere causati da comportamenti umani, sono legati a non-influenzabili nuovi comportamenti solari già evidenziati e comprovati dagli scienziati,
I legami delle catene produttive che si sono allungate e che toccano paesi con differenti tradizioni, religioni, istituzioni,in un domino sempre più impossibile da prevedere nei suoi comportamenti.
Il picco del petrolio che delimita comunque un passaggio da un era privilegiata ad un’era che non è stata ancora inventata;
La strutturalità delle questioni sul tappeto,legate più ad un fondamento quasi filosofico del modo di vivere, come ad esempio il consumo acritico e la convinzione inossidabile che avere di più equivale ad essere più felici.
Le dimensioni delle nuove questioni mondiali enormi, che travalicano i confini nazionali e che rendono i singoli governi statali troppo piccoli anche per solo pensare di mitigare gli effetti delle nuove emergenze finanziarie, belliche, climatiche, civili;
La reale complessità delle nuove questioni che ancora non ha generato un sistema previsionale attendibile.
Per ultima, la convinzione molto umana e direi quasi hollywodiana che se un sistema ha funzionato per un centinaio di anni possa funzionare sempre e che per definizione esistano dei medici che possano fare resuscitare un agonizzante. Un po’ come le storie d’amore con un immancabile lieto fine.

Ci sono poi le cattive abitudini che rendono mondo futuro insidioso anziché promettente:
1. Uno sfrenato individualismo;
2. La scarsa e poco diffusa volontà di prendersi responsabilità personali sia che siano materiali, culturali o spirituali;
3. I governi che rispecchiano queste peculiarità dei singoli;
4. La lentezza con cui vengono apportati cambiamenti istituzionali e la scarsa propensione a valutare il medio lungo periodo;
5. La pigrizia mentale, sostanziale generatrice del punto precedente.

Le possibili azioni per prepararsi al nuovo :

E’ implicito assumere che per uscire (od entrare) in questa nuova era, sia necessario l’uso di una capacità tipica di tutti i grandi uomini e donne che hanno migliorato loro stessi ed il mondo: “ una visione lunga e larga”:
Immaginate che il lavoro, la famiglia, lo Stato, la Religione, la Scuola, i trasporti, la catena alimentare non funzionino più come sapevamo. In casi del genere come faremmo a provvedere a noi ed ai nostri cari?
Scoprirete presto che la parola più utile è “COOPERAZIONE”
Non so dirvi in che modo, ma so dirvi che il futuro passa attraverso questo.
Il contemperamento delle necessità individuali e l’accettazione di un personale passo indietro per poterne fare dieci collettivi in avanti.
Scoprirete presto anche che questo è abbastanza utopistico sul breve.
Troppo poca la pressione che i problemi elencati stanno facendo su tutti noi.
Stiamo ancora troppo bene per prendere in considerazione un ridimensionamento dell’ego.
Una speranza è quella di identificare e poi mettere ai posti di comando quelle figure che storicamente riescono a fare incontrare gli opposti.
Quei leader animati da sogni proiettati oltre la loro esistenza terrena, che chiamano all’azione gli uomini prima che le categorie, le razze, i sessi, i gusti, le classi e le nazionalità in cui ci siamo divisi.
Per permettere ciò è quindi necessario uno sforzo dal basso.
Di scelta sicuro, ma anche di comportamento.
1. Flessibilità.
2. Permeabilità.
3. Curiosità.
4. Laboriosità.
5. Ottimismo.
Ecco mi preparerei così al nuovo che si affaccia.
Spingendo più là i limiti che ho in queste abilità
Provando e riprovando e mettendomi alla prova ovunque e comunque.
Spingerei mio figlio, per quanto possibile, a sviluppare queste capacità.
Serviranno più a lui che a me.
Non sono garanzie, sono solo il biglietto di entrata al teatro del futuro.
Esserne attori, comprimari spettatori o venditori di popcorn sarà un effetto della costanza e della reale preparazione tecnica che saremo capaci di dimostrare da ora in poi.
da www.sebastianozanolli.com
 
Generale
postato da  Claudio Maffei alle  09:38 | aggiungi commento | commenti presenti [3]



26 Set 2009
Pregi e difetti di un relatore con le slide
Spesso utilizzato in modo banale e controproducente, ma potenzialmente sublime: PowerPoint continua a dividere il mondo dei convegni e della formazione
Nel 2003 Paolo Attivissimo ha pubblicato «È ufficiale: la powerpointosi esiste» dove in modo spiritoso denuncia i cattivi usi delle presentazioni con slide. È tornato sull’argomento Andrea Bagatta nel 2008 con «Contrordine, PowerPoint non è il male» con una breve rassegna degli argomenti dei detrattori, e qualche commento intelligente di lettori qualificati. Nella mia lunga carriera di formatore ho messo insieme una notevole raccolta di lucidi per lavagna luminosa, che man mano ho trasferito su PowerPoint, poiché l’abbinamento computer/videoproiettore è diventato da anni la soluzione migliore per fornire supporto visivo a presentazioni, lezioni, dimostrazioni, riunioni.
Se prima dovevo portare un pacco di lucidi, poi il mio notebook, ora metto in tasca un hard disk da 80 GB dove ho stivato tutto il mio materiale, e che col suo collegamento Usb mi permette di usare qualsiasi computer dovunque vada. Il mio debito di gratitudine per questa elegante soluzione mi impone di intervenire a difesa del povero PowerPoint e dei suoi simili.
DA ALTAMIRA IN POI
Il programma di presentazione PowerPoint fa parte del pacchetto Microsoft Office, e quindi è il più generalmente usato. Tuttavia funziona benissimo anche il programma di presentazione di OpenOffice, o Flash, che meglio di Power Point si presta a gestire animazioni e multimedialità. Con questi programmi si possono fare molte cose, da audiovisivi per mostre a filmati in animazione per formazione e per svago, anche se la stragrande maggioranza delle persone li usa solo come sequenze di slide a supporto di presentazioni. I produttori forniscono interfacce standardizzate (modelli, layout, combinazioni di caratteri e di colori) per far sì che chiunque, anche senza conoscenze grafiche e di comunicazione visiva, possa mettere insieme una presentazione decente.
La necessità di combinare ciò che si dice con qualcosa da mostrare risale agli albori della civiltà. Gli animali dipinti nelle grotte di Altamira più di 15.000 anni fa probabilmente servivano allo sciamano o all’anziano per parlare di rituali e tecniche di caccia. Nelle aule scolastiche c’è ancora la lavagna con i gessetti. Nelle presentazioni business e nella formazione si usava la lavagna luminosa, ormai sostituita ovunque con il videoproiettore. Ognuno di questi strumenti ha i suoi pro e i suoi contro. Il difetto della lavagna con i gessetti, o dell’attuale tabellone con i pennarelli, è che quando si scrive si voltano le spalle al pubblico, e quindi se ne perde il contatto emotivo, anche se per pochi momenti. La lavagna luminosa lascia l’oratore di fronte al pubblico, ma ha bisogno di semioscurità, che facilita appisolamenti e distrazioni.
IL PROBLEMA, LA SOLUZIONE
Come dice Paul Watzlawick, è la soluzione che crea il problema. Questo è vero anche per PowerPoint, che risolve il problema di preparare una buona presentazione in poco tempo e senza tante conoscenze tecniche o artistiche, ma proprio per la sua facilità di uso genera routine, mediocrità, uniformità di presentazioni. Inoltre, quando ho preparato una sequenza di slide, tendo a seguire solo quella, e quindi a svolgere la presentazione in modo rigido, secondo una linea predisposta. In tal senso la presentazione con PowerPoint non è strategica, non costruisce la conoscenza insieme con i partecipanti, con le loro conoscenze e i loro contributi, ma finisce con l’essere una monotona somministrazione di nozioni preconfezionate.
Molto spesso la sequenza di slide non viene usata per facilitare la comprensione degli ascoltatori, ma come promemoria per l’oratore, il quale si limita a leggere e commentare brevemente le slide l’una dopo l’altra. Ciò porta a fare slide troppo piene di testo o di dati, spesso illeggibili per il pubblico, utili solo all’oratore che così ricorda ciò che deve dire, ma al tempo stesso lo rende poco interessante. Ho visto oratori che si limitano a leggere le slide, dimenticando che un pubblico alfabetizzato se le legge da solo. All’altro estremo ci sono oratori che lasciano su una slide e parlano d’altro. Spesso compaiono frasi scritte in forma discorsiva, con blocchi di testo che scoraggiano la lettura rapida, al posto di brevi elenchi, parole chiave, frasi ad effetto.
Tom Peters ama sparare sul pubblico slide con una sola parola o una sola frase, a creare dubbio, sorpresa, curiosità, emozioni, anche perché spesso le sue frasi lapidarie finiscono con un punto interrogativo o esclamativo. Mischia criteri diversi per sorprendere e spiazzare continuamente l’ascoltatore, passando da slide con una sola parola a slide con interi periodi pressoché illeggibili, a slide quasi vuote. Quindi non è noioso il povero Power Point, ma la monotonia e la ripetitività di chi lo usa. Se seguo pedissequamente i modelli proposti, e faccio slide tutte uguali, con un titolo e tre o quattro frasi, la monotonia è garantita. Se invece alterno slide di testo a immagini, piccole animazioni, domande, forti segni grafici e simbolici, conduco lungo la mia presentazione la tensione emotiva dell’ascoltatore.
COMBINARE SUPPORTI DIVERSI
Una buona idea è combinare supporti diversi. Possiamo partire con una presentazione PowerPoint, poi gestire un momento di interattività con la sala usando la lavagna a fogli mobili. Possiamo usare il nostro corpo, muovendoci, facendo smorfie, coinvolgendo gli ascoltatori a dire o a fare qualcosa. Possiamo interrompere la presentazione con una domanda, invitando a rispondere i partecipanti, o avviando una discussione, per riprendere la presentazione sutibo dopo. Un criterio generale puo essere questo: se posso fare a meno di supporti, ben venga; se invece ho bisogno di far vedere qualcosa, posso improvvisare al momento su una lavagna per scrivere man mano le cose di cui si parla, oppure, se ogni volta devo riscrivere le stesse cose, è meglio usare una solida e collaudata presentazione PowerPoint. Se poi ho una brutta calligrafia, scrivere col computer è un obbligo.
Prima di organizzare i miei materiali mi chiederò: a che serve la presentazione? Come viene fruita? Come viene gestita? Quanto tempo ho? Quanta gente c’è? In base alle risposte che mi sarò dato, organizzerò la presentazione con tutta la mia creatività personale, dai modi di presentare (in forma di rap? Con un gioco? Con un brainstorming?) alle soluzioni specifiche (immagini, suoni, caratteri, colori, parole chiave, documenti, mappe, grafici). Realizzerò il supporto visivo con i miei standard di qualità (numero di parole e frasi, rapporto figura/sfondo, font e grandezza dei caratteri, pertinenza dei contenuti) e curerò la perfetta corrispondenza fra ciò che dirò e ciò che farò vedere.
Se però la presentazione non la faccio io, ma miei sostituti o collaboratori? Lascio che ognuno di loro faccia le cose a modo suo o fornisco loro uno standard uniforme? Se c’è tempo sufficiente, posso preparare bene tutto il materiale, farlo provare ai collaboratori, osservare e correggere la loro gestione della presentazione. Creerò un modello grafico personalizzato, senza ricorrere a quelli preconfezionati. Userò immagini originali, dai disegni alle foto. Ma quando c’è fretta? Se devo preparare una presentazione… presentabile in poche ore, allora i modelli predisposti possono salvarmi. Certo, terrò presente che sono modelli visti e rivisti, quindi cercherò di usare poche slide significative e puntare di più su ciò che dirò.
ALTERNATIVE A POWERPOINT
Dopo aver deplorato il povero PowerPoint, e dunque aver deciso di non usarlo, che cosa faremo? Ho assistito alla lezione di un famoso professore, che l’ha letta sul monitor del suo notebook senza proiettarla! Oppure a lunghe conferenze solo parlate, con mia grande difficoltà a non distrarmi, a seguire il discorso, a sintetizzare i concetti essenziali. Ho anche visto il grande Marvin Minsky scrivere sui lucidi della lavagna luminosa, e usare bottiglie e cose varie. Danilo Mainardi fa in un minuto un disegno molto espressivo su cui svolge il suo intervento a Quark. Quando ho fatto da chairman ad un incontro con Rob Thomsett ho ingaggiato un trio jazz che intervenisse qua e là a improvvisare sulle differenze fra project management tradizionale e agile.
Se però devo fare la mia solita lezione sul problem setting, o una presentazione al volo, continuo ad usare il mio bravo PowerPoint, o il suo equivalente open.

Umberto Santucci per Apogeonline
 
Generale
postato da  Claudio Maffei alle  15:42 | aggiungi commento | commenti presenti [2]



20 Set 2009
20 settembre, solo una Via o qualcosa di più?
Da "il Tevere più largo" di Giovanni Spadolini
20 SETTEMBRE 1957: ottantasettesimo anniversario della breccia di Porta Pia. È ancora Papa, sia pure per poco più d'un anno Pio XII, non più il Pio XII della Humani generis e del tentativo di conciliazione fra cattolicesimo e democrazia, ma il Papa stanco e solitario e inaccessibile degli ultimi malinconici anni della chiusura e della intransigenza pacelliana, in quel Vaticano spogliato e jeratico in cui si agitano ombre di cortigiani e faccendieri.
I rapporti fra Chiesa e Stato in Italia non sono più quelli, pieni di fiducia e di speranza, dei primissimi anni della liberazione: coi grandi fervori del Cristo democratico e rinnovatore, coi primi brividi e fantasmi del “Papato socialista”.
Le ferite dell' "operazione Sturzo", cioè del tentativo di alleanza con l'estrema destra che rimonta al 1952 ma prolunga ancora i suoi effetti al di là delle mura vaticane, sono tutt’altro che risarcite. Monsignor Montini, che incarna la linea "degasperiana" e democratica dell’episcopato, senza inibizioni e chiusure retrive, è stato esiliato a Milano, senza neppure – massima umiliazione – il cappello cardinalizio; De Gasperi è morto da tre anni, ma la sua eredità politica appare dilapidata e dispersa, a vantaggio di una lotta di tutti contro tutti nella stessa democrazia cristiana, di una contesa fratricida.
La repressione contro i fermenti del dossettismo è stata totale; e Dossetti stesso è fallito nell’ultimo tentativo di conquistare il Comune di Bologna, dopo aver perduto la battaglia per conquistare il partito. Al posto della prima sinistra democristiana, utopistica ma generosa, portatrice di un fermento di revisione e di rinnovamento totale della vita italiana, si agitano nuclei di potere, tanto più esasperati nella dottrina quanto più ambiziosi e disinvolti nella pratica, con la nuova mistica, massiccia e conquistatrice, degli enti di Stato alle spalle.
Ogni traccia di Risorgimento si allontana o si scolorisce: anche di Risorgimento cattiolico-liberale. I richiami di De Gasperi a Manzoni o a Croce sembrano lontani di qualche generazione. La biografia, l’esemplare biografia, del canonico Aubert su Pio IX, il Papa del Sillabo e dell’opposizione cattolica, non è tradotta né traducibile in Italia, per veti diretti o indiretti dell’autorità ecclesiastica. Nel clero i libri che vanno ancora per la maggiore sono quelli, semplificatori e intransigenti, dell’ultraguelfo Massé. Il solco con la cultura laica pare approfondirsi: la formula del "Risorgimento scomunicato" evade dai confini della pubblicistica; proprio nel ’57 si celebra un convegno su "Stato e Chiesa", dove voci anticlericali si uniscono a voci rigorosamente laiche ma rispettose della tradizione cattolica, come quella di un Salvatorelli. Eppure: proprio in quella ricorrenza della breccia di Porta Pia, in quella tensione e lacerazione estrema che doveva prefigurare i casi clamorosi del vescovo di Prato e dell’aspra polemica tra laici e cattolici per le elezioni politiche del maggio 1958, nel giornale da me allora diretto, Il Resto del Carlino, avanzo per la prima volta una proposta, fra seria e paradossale, che sarà poi ripresa tante volte negli anni di poi: la proposta di santificare il 20 settembre, di trasformarlo in festa religiosa.
E con quale motivazione ? Con la precisa motivazione che la liberazione di Roma da parte dei bersaglieri di Cadorna ha sollevato la Chiesa dal fardello del potere temporale, l’ha liberata da tutti gli impacci e i gravami del temporalismo alleato con la logica inesorabile del "Trono e Altare": quasi in omaggio ad un disegno provvidenziale, presupposto necessario del nuovo incontro fra la Chiesa e i popoli, della nuova unica Santa Alleanza possibile nel mondo moderno, l’alleanza del Pontificato con la democrazia. (…omissis…).
La proposta cadde nel vuoto: non mancò qualche segno di ironia o di sgarberia clericale (…omissis…).
20 settembre: è una data patetica nella storia d’Italia. Il momento più alto del Risorgimento, ma quasi vissuto in punta di piedi, con impacciata discrezione, con un diffuso senso di timore. "Il giorno più grande del secolo decimonono" : aveva detto un famoso storico tedesco, ma che la classe dirigente italiana farà il possibile per dimenticare o scolorire, quasi atterrita dal compito storico che la Provvidenza le aveva assegnato. (…omissis…).
Solo il fascismo, sprezzante di tutte le pregiudiziali risorgimentali, indifferente alle radici profonde dello Stato liberale e unitario, poteva cancellare con un tratto di penna quell’esile filo che collegava le vecchie e le nuove generazioni, il 20 settembre "giorno festivo per gli effetti civili". Porta Pia fu riassorbita nella Conciliazione: l’11 febbraio diventò la sola festa, la festa nazionale celebrante il trionfo della "ragion di Stato" fascista e vaticana, il suggello dei Patti lateranensi.
Quel giorno, già controverso e tormentato per la generazione dei nostri padri, perse quasi ogni significato per la generazione nata all’indomani della prima guerra mondiale. Il quadro di Cammarano tendeva a scomparire dai libri di testo, dove aveva pur dominato fino agli anni trenta; i riferimenti alla questione romana diventavano sempre più scarni o retorici, scarni per il passato, retorici per il ritorno all’incontro fra la Croce e l’Aquila sanzionato dalle guerre di Etiopia e di Spagna. Capire, in quel periodo, per uno studente ginnasiale, cosa fosse stata la legge delle Guarentigie, era estremamente difficile, per non dire impossibile. Il 20 settembre si dissolveva nell’ironia che avvolgeva l’"Italietta", la piccola Italia del trasformismo liberale e post-risorgimentale, incapace di marciare col ritmo guerriero del passo dell’oca. E i grandi problemi ideali del riscatto nazionale sopravvivevano solo in chi, pur in mezzo alle negazioni ufficiali, tentava di ritrovare il filo del nostro dramma unitario in certi scrittori pur accettati dal regime, in chi, da Oriani, sapeva magari risalire a Gobetti.
L’autore di questo testo è Giovanni Spadolini, storico, giornalista e politico di primissimo ordine, scomparso quindici anni fa. Ricordando Giovanni Spadolini, che ho avuto l’onore di conoscere e frequentare, penso a quanto ci manchino – in questa sedicente e confusionaria seconda repubblica – uomini come lui!
 
Generale
postato da  Claudio Maffei alle  10:35 | aggiungi commento | commenti presenti [0]



10 Set 2009
La verità è scritta sul nostro volto
C’è un nuovo telefilm su Fox, in stile dottor House, dove risolvono casi e delitti attraverso l’analisi non verbale e paraverbale.

Come dice Aldo Grasso sul Corriere della Sera, la tesi del
dottor Cal Lightman, ex agente di polizia specializzato in prossemica, fisiognomica, body language, cinesica è che
«Il linguaggio del corpo non mente» .

Lightman fornisce preziose consulenze all' FBI, alla polizia locale, alle aziende private quando c' è da risolvere in fretta qualche mistero criminale.
La serie si intitola «Lie to Me» ed è ispirata agli specialisti che supportano le varie unità investigative della polizia americana.
E’costruita sulle vicende professionali del dottor Paul Ekman, professore di psicologia, e sulle sue ricerche sul comportamento umano. Che non sono bizzarrie o americanate di moda, ma il fondamento stesso dell' etologia umana, come ci ricordano gli studi di Irenaus Eibl-Eibesfeldt e quelli più divulgativi di Desmond Morris.
Ci sono alcune espressioni istintive tipo il sorriso, il sogghigno, il cipiglio, lo sguardo fisso, l' espressione dell' ira, ecc. che governano la nostra comunicazione facciale.
Lightman cerca di intuirle, di leggerle, di interpretarle per metterle in contrasto con il linguaggio più comune e convenzionale, quello delle parole.
Grattarsi il mento, torcere le mani, arricciare il naso o deglutire troppo: sono tutti segnali che svelano molto più di quello che saremmo disposti ad ammettere con le parole.
In media ogni persona mente tre volte ogni dieci minuti.
Davanti al dottor Cal Lightman, però, meglio non farlo: per lui la natura umana non ha segreti.

Ovviamente le guarderò tutte! Per trovare spunti ed esempi pratici a sostegno della teoria che ogni giorno insegno.
 
Generale
postato da  Claudio Maffei alle  18:06 | aggiungi commento | commenti presenti [2]



3 Set 2009
Una questione di prospettiva
Sapevo che era una questione di prospettiva.
Ogni volta che la visione del mondo si rimpicciolisce, i nostri problemi o i nostri mali ci paiono importantissimi, la nostra morte orribile, impensabile. Se la visione si allarga e si riesce a vedere il mondo nella sua interezza e magnificenza, il nostro stato, pur penoso che sia, diventa parte di quella vastità, di quell’eterno, naturale arrovellarsi dell’uomo.
Me ne accorgevo accendendo la televisione o andando al cinema: se vedevo un film sciocco mi deprimevo; i dolori alla pancia o allo stomaco mi parevano terribili. Se vedevo invece un bel film, come l’edizione restaurata delle Notti di Cabiria di Fellini, tutto ciò che mi stava succedendo mi pareva un’espressione di quel “mondo grande e terribile” di cui il vecchio monaco tibetano parla al giovane Kim di Kipling: un episodio di una bella storia. Io, marginale.
Per questo l’arte, quella vera, quella che ci viene dall’anima, è così importante nella nostra vita.
L’arte di consola, ci solleva, l’arte ci orienta. L’arte di cura. Noi non siamo solo quel che mangiamo e l’aria che respiriamo. Siamo anche le storie che abbiamo sentito, le favole con cui ci hanno addormentati da bambini, i libri che abbiamo letto, la musica che abbiamo ascoltato e le emozioni che un quadro, una statua, una poesia ci hanno dato.

Tiziano Terzani “Un altro giro di giostra”
 
Generale
postato da  Claudio Maffei alle  17:48 | aggiungi commento | commenti presenti [0]



19 Lug 2009
L'ultima lezione
L'ultima lezione tenuta da Randolph Frederick Pausch, professore di informatica all'Università di Pittsburgh (Pennsylvania) consapevole di stare per morire a causa di cancro al pancreas. Bellissima e commovente conferenza che non parla della morte ma del senso della vita, di come viverla e realizzare i proprio sogni...

- "L’esperienza è ciò che ottieni quando non sei riuscito a ottenere ciò che avresti voluto realizzare".

- "Ogni ostacolo, ogni muro di mattoni, è lì per un motivo preciso. Non è lì per escluderci da qualcosa, ma per offrirci la possibilità di dimostrare in che misura teniamo a quella cosa. I muri di mattoni sono lì per fermare le persone che non hanno abbastanza voglia di superarli ".

- "Quando fai qualcosa di sbagliato e nessuno si prende la briga di dirtelo, significa che è meglio cambiare aria. Chi si prende la briga di dirtelo lo fa perché ti ama e ti ha a cuore".

- "Mi lamentavo con mia madre di quanto fosse difficile quell'esame all'università, e di quanto fosse spaventoso. Lei si inclinò verso di me, mi diede un buffetto sulle spalle e mi disse: «Sappiamo bene come ti senti, tesoro, ma ricorda, tuo padre alla tua età combatteva contro i tedeschi»".

- "Sto per morire e mi sto divertendo. E continuerò a divertirmi ogni giorno che ancora mi resta da vivere. Perché non c’è un altro modo per vivere".

- "Non perdete mai la capacità di stupirsi tipica dei bambini. È troppo importante. È quella a spingerci ad andare avanti, ad aiutare gli altri".

- "Ho una mia teoria sulle persone che provengono dalle famiglie numerose: sono persone migliori perché hanno dovuto imparare come andare d’accordo con gli altri".

- "Non si può arrivare in cima da soli. Qualcuno deve aiutarti. Io credo nel karma. Credo che si possa ricevere ciò che si è dato".

- "Non lamentatevi. Lavorate più duramente. Non cedete. L’oro migliore è quello che giace in fondo ai barili di merda".

- "Se vivrete nel modo giusto, il karma si prenderà cura di sé. I sogni verranno da voi".

-"La fortuna è quel momento in cui la preparazione incontra l’opportunità"

-"La fortuna ce la creiamo da soli; chi più sa, più vale."

Randolph Frederick Pausch
(Baltimore, 23 ottobre 1960 – Chesapeake, 25 luglio 2008)

Guarda il video QUI QUI
 
Generale
postato da  Claudio Maffei alle  17:16 | aggiungi commento | commenti presenti [0]



10 Lug 2009
Do you speak English?
Come dice sempre Beppe Severgnini noi italiani abbiamo inventato alcune parole inglesi. Il guaio è che non lo sappiamo. Il turista che volesse tenersi in esercizio e chiedesse in albergo dove può fare “footing”, ad esempio, è destinato a incontrare sguardi smarriti (il nostro footing in inglese si dice jogging). Chi avesse bisogno di un nastro adesivo e chiedesse alla cameriera del piano “mi porti lo scotch”, la vedrebbe ritornare poco dopo con un whisky (avrebbe dovuto dire sellotape) Se una signora italiana annuncia di voler acquistare un body, non sta chiedendo un capo di biancheria intima ma un corpo o addirittura un cadavere!
Ma noi italiani non siamo soltanto convinti che l’inglese sia efficace, crediamo anche che ci renda più importanti. Chiamare un uomo d’affari vip, manager o executive, in Italia viene giudicata una cortesia. Questi termini dovrebbero invece rientrare nella categoria delle ingiurie. La parola vip ormai viene scritta sulle tessere sconto, e pronunciata solo nei villaggi-vacanze; manager è il buon vecchio capufficio; per quanto riguarda l’executive è, da vocabolario, la persona incaricata di un lavoro amministrativo o della gestione di affari. Definizione molto ma molto lontana da quel mondo patinato che immaginiamo quando sentiamo questa parola.
Ma la palma d’oro delle esagerazioni italiche è l’abuso della parola top. Ormai tutto è top. Le modelle (top models), gli uomini d’affari (top managers), i posti a sedere (top class).
Tutto ciò è ridicolo ma il massimo l’ho visto e sentito con le mie orecchie in una cittadina toscana. Qui un negozio di abbigliamento situato nel corso principale ha deciso di chiamarsi “Top One”. Chi ha disegnato l’insegna, però, ha scritto le due parole troppo vicine. Se aggiungete a ciò il fatto che il proprietario ha assunto due splendide ragazze come commesse, il gioco è fatto. I clienti che cercano una giacca o un paio di jeans dicono proprio così: “Proviamo dalle topone, l’avranno senz’altro” ;-)
 
Generale
postato da  Claudio Maffei alle  10:20 | aggiungi commento | commenti presenti [0]



28 Giu 2009
Riceviamo e volentieri pubblichiamo
A volte, basta un sorriso…

Ciao Claudio
ho letto il tuo blog del 21 giugno “Medici a scuola per imparare a comunicare” .
Quello che ho letto, mi ha toccato nel profondo perché l’ho vissuto personalmente, con mia sorella.
Nel 2003, mia sorella, si ammalò di cancro.
Fui io la prima a leggere l’ esame istologico e citologico.
Quello che ho provato non si può neanche lontanamente immaginare.
Per quello che è stata la mia esperienza, penso che sia giusto dire al paziente la verità, ma nello stesso momento infondere coraggio: “dai che ce la facciamo, insieme. Credici, non ti mollerò”.
Questo deve saper dire un medico. Un medico deve saper parlare con le persone ammalate di cancro, in particolare ai giovani. Deve entrare in sintonia con il paziente deve infondere sicurezza e non paura.
E invece…si va in giro come degli automi per ospedali a fare esami e terapie.
Non c’è chiarezza, comprensione, calore umano e neppure un supporto psicologico per l’ammalato e la famiglia.
Ti ritrovi da sola con un grosso problema da gestire e quella forza che deve venir fuori.
Mia sorella non voleva curarsi.
Solo allora e per una volta sola, qualcuno le disse non preoccuparti, vedrai ce la faremo.
E poi… il silenzio.
Quei silenzi erano un coltello nel suo cuore.
Quei silenzi erano angoscia, paura.
Esami su esami era tutto quello che le dicevano di fare.
Non una parola di incoraggiamento. Solo la certezza che ogni giorno era regalato e che presto sarebbe arrivata la fine.
Invece l’ammalato ha bisogno di entrare in empatia con le persone che lo seguono, deve sentirsi sicuro per reagire, per trovare la forza, per combattere, per non arrendersi. Fino alla fine.

Mia sorella non voleva curarsi.
Le dicevo:” abbiamo incontrato un nemico, dobbiamo combatterlo, io sarò lì con te
Ci sono tante cure, molte persone hanno vinto questa battaglia, la vinceremo anche noi, vedrai. Anche se sapevo, dentro di me, che il pericolo di non farcela c’era, lei non doveva percepirlo, non potevo toglierle la speranza. Non avrebbe reagito, non avrebbe lottato.
Infatti quando vedeva il viso del medico, un pò strano, silenzioso, lei si preoccupava, mi diceva:HO PAURA.
Cosi un giorno andai dal medico a sua insaputa e gli dissi come si sentiva mia sorella quando lo incontrava. Lo pregai di aggiungere alla sua professionalità un po’ di umanità.
Durante questo lungo percorso ne abbiamo incontrato solo uno di medico con una umanità ammirevole..
Lui aveva sempre una buona parola sia con mia sorella, sia con me.
Con lui mia sorella era più tranquilla.
Il problema è grave mi diceva, ma noi faremo tutto quello che si può fare. Lei però deve essere forte e trasmettere questa forza a sua sorella.
Le mie ricerche personali mi avevano portato a capire la pericolosità delle terapie, ma per quel tipo di cancro c’ erano solo quelle, di terapie.
E così l’ aiutai a comprendere che lei doveva continuare la sua vita come prima. Doveva vivere.
E fu cosi.
Faceva i controlli ma, fra un controllo e l’altro, la sua vita continuava.
In casa ero riuscita ha instaurare un clima sereno, per lei.
Dentro di me, l’ angoscia continuava, ma dovevo occuparmi di lei, dovevo darle un sorriso tutti i giorni e tanta serenità.

Alla fine mia sorella è stata ricoverata nel reparto di ematologia.
Lì non erano permesse le visite.
Quella sera mia sorella mi voleva. Ho chiesto di entrare un momento indossando indumenti sterili, ma mi mandarono via.
Quella sera mia sorella morì.

Il medico deve dire la verità, deve essere sincero.
Il medico deve saper ascoltare.
Il medico deve infondere fiducia e dare speranza.
Il medico deve trasmettere la forza di lottare di non arrendersi.
Il percorso va fatto insieme: medico e famiglia.
Non dobbiamo sentirci soli.

Scusa lo sfogo. Grazie per quello che fai.
Un abbraccio.
Iris
 
Generale
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21 Giu 2009
Medici a scuola per imparare a comunicare
I medici devono interrogarsi su come dare cattive notizie ai malati. Visto che la vita di un malato può essere accorciata non solo dagli atti, ma anche dalle parole e dai modi del medico.
Consola sapere che oggi molti dottori ne sono consapevoli e si sforzano di trovare le parole giuste. All’università fanno capolino corsi specifici. La capacità di comunicare si può imparare e finalmente se ne stanno accorgendo anche loro.
E’ più di un anno che il mio amico Alessandro Lucchini ha pubblicato Il linguaggio della salute.
Un libro che si rivolge a medici, psicoterapeuti, infermieri, professionisti sanitari e desidera aiutarli a costruire relazioni più proficue con i diversi interlocutori, sia nelle situazioni critiche e drammatiche sia negli scambi di tutti i giorni, e a coltivare un maggiore interesse umano.
Ma la domanda cruciale per me è una sola: quanta verità dire ai pazienti?
Secondo il codice deontologico dei medici oggi in vigore bisognerebbe dirla tutta e solo al diretto interessato. Nella realtà le cose vanno diversamente.
Oltre la metà dei medici non dice la verità al paziente, moltissimi ne parlano ai parenti per la malintesa convinzione che i familiari sappiano gestire meglio la situazione.
Nei paesi anglosassoni però e tutto diverso. Qui vige l’idea che le informazioni si condividono per decidere insieme attraverso un vero consenso informato. A costo di essere brutali i medici sono sinceri.
Da noi resiste il paternalismo latino. Il medico non parla perché si carica della responsabilità delle cure, per quello che ritiene essere il bene del paziente.
Ma fra il dire tutto e il tacere deve pur esserci una terza via.
La terza via non può che essere il coinvolgimento emotivo.
Non conta solo la verità e come dirla, bisogna anche “raccogliere i cocci” del malato e non farlo sentire solo, dargli speranza.
Il linguaggio medico è per lo più freddo e spersonalizzato: sigle, tecnicismi, frasi senza verbo e quindi senza persona (e relativa assunzione di responsabilità), forme passive; oppure infiniti, gerundi e participi, che chiudono i significati anziché aprirli; al massimo, la foglia di fico di qualche velatura eufemistica, per attutire l’impatto di una cattiva notizia inaspettata.
Tante sono le prove di questa volontaria neutralità emotiva, come se mantenersi asettici fosse la migliore garanzia di obiettività e di successo. È invece il contrario: la fiducia è un’emozione, si alimenta di fattori emotivi, come gli sforzi orientati alla reciproca comprensione, e genera altri fattori emotivi, come la credibilità, l’accettazione partecipe dell’autorevolezza, la lucida collaborazione e la costanza nel seguire la terapia, contro il disorientamento e le contraddizioni che accompagnano la sofferenza fisica. Guarire è più facile se il paziente sente emotivamente coinvolto chi si occupa della sua salute.

 
Generale
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9 Giu 2009
La mappa non è il territorio
Racconta Frank Koch in Proceedings, la rivista del Naval Institute.
Due navi da guerra assegnate alla squadra istruttrice erano state per parecchi giorni al largo con tempo di burrasca per le manovre. Io prestavo servizio sulla nave di comando e al calar della notte ero di quarto sul ponte. La visibilità era scarsa, con banchi di nebbia, e così il capitano rimase sul ponte sorvegliando le varie attività dell’equipaggio.
Poco dopo l’imbrunire, l’uomo di vedetta sul ponte annunciò:
“Luce a tribordo!”
“E’ ferma o si allontana?” gridò il capitano.
“E’ ferma capitano,” rispose la vedetta. Questo significava che eravamo su una pericolosa rotta di collisione con quella nave.
Allora il capitano ordinò al segnalatore: “Segnala a quella nave: siamo in rotta di collisione, vi consiglio di correggere la rotta di 20 gradi.”
Giunse di rimando questa segnalazione: “E’ consigliabile che siate voi a correggere la rotta di 20 gradi.”
Il capitano disse: “Trasmetti: io sono un capitano, correggete la rotta di 20 gradi.”
“Io sono un marinaio di seconda classe,” fu la risposta. “Fareste meglio a correggere la rotta di 20 gradi.”
Adesso il capitano era furente. “Trasmetti,” abbaiò “sono una nave da guerra: correggete la rotta di 20 gradi.”
Rispose la luce lampeggiante: “Io sono un faro.”
Cambiammo rotta.
Ogni nostro comportamento, anche il più elementare, è sorretto da una convinzione. Ed è in base alle nostre convinzioni che strutturiamo il nostro sistema di pensiero ed anche il nostro carattere. Tutto ciò avviene per lo più nella nostra infanzia.
Che cos’è una convinzione?
Lo spiego con un esempio: quando il bambino si scotta col ferro da stiro quell’esperienza costruisce nella sua mente la convinzione che “toccando il ferro da stiro mi scotterò” e la generalizzazione “tutti i ferri da stiro scottano sempre”.
Se il bambino non terrà in considerazione altre informazioni – la presa di corrente è innestata; il calore si concentra sulla piastra e non sul manico; esistono ferri da stiro giocattolo; esistono vecchi ferri da stiro usati come portafiori… - probabilmente non toccherà mai più un ferro da stiro.
Dunque, diciamo che la formazione della convinzione ha a che vedere con l’esperienza che abbiamo fatto, e come dicevo prima sono le prime esperienze a strutturare le convinzioni che poi ci guideranno per il resto dei nostri giorni.
Vediamo un altro esempio:
Si racconta che per tenere legato un elefante sia sufficiente un piccolo palo e una fune.
Quando l’elefante era cucciolo, legato ad un palo delle medesime dimensioni, non aveva la forza di liberarsi. Nel tempo lui ha elaborato la convinzione di non essere mai in grado di poter divellere quel palo. Così, quando sarà adulto, quello stesso piccolo palo terrà l’elefante efficacemente legato.
Noi funzioniamo pressappoco allo stesso modo: a partire dall’esperienza costruiamo la convinzione, sulla base della quale adottiamo un comportamento. Ma le convinzioni sono molte, moltissime, e i relativi comportamenti anche.
Non tutte le convinzioni sono utili, però. Alcune sono limitanti. Sono quelle che nella vita ci fanno perdere. I nostri insuccessi scaturiscono proprio da convinzioni limitanti.
Cosa vuol dire convinzione limitante? Lo abbiamo visto con l’esempio dell’elefante. Altro esempio: si è convinti di non valere, e invece valiamo molto di più di quanto crediamo. Oppure, crediamo di essere dei numero uno, invece siamo delle povere creature. Spesso sono le convinzioni su noi stessi che ci limitano.
Le convinzioni, che nascono sulla base di bisogni da soddisfare, generano comportamenti, molti dei quali anche verso altre persone. I risultati determinano il successo o l’insuccesso di quel dato comportamento, dunque, se le convinzioni agenti sono costruttive o limitanti.
E poiché siamo ripetitivi come l’elefante dell’esempio, i comportamenti diventano abitudini, e l’abitudine scaturisce dal nostro cervello in modo automatico, diventa comportamento inconscio, per cui se quel dato comportamento o convinzione produce danni, non ce ne rendiamo conto se non col senno di poi.
La stessa comunicazione ne sarà influenzata, poiché il linguaggio struttura il nostro sistema di pensiero. Infatti, con un po’ di osservazione, si può capire come una persona pensa da come proferisce le sue frasi e le parole che usa.
Attraverso il proprio sistema di convinzioni la persona costruisce la propria mappa con la quale seguire il tracciato della sua vita. La mappa è il modo in cui noi vediamo il mondo.
Ogni nostro comportamento è diretto a soddisfare un bisogno, che può essere materiale o spirituale. Al bisogno è legata una carica emotiva. La carica emotiva è più o meno forte in base al significato che la mia convinzione ha attribuito a quel bisogno. Per esempio, se durante la mia infanzia, a causa delle condizioni modeste della mia famiglia, ho patito la fame, oppure la mamma, memore di un’infanzia vissuta all’insegna della penuria, mi ha sempre indotto a mangiare oltre misura e in modo sistematico, costruirò la convinzione che è importante mangiare tutto e di più, perché non so se lo potrò fare domani. Il risultato è l’obesità.
“La mappa”, dunque, “non è il territorio”. È soltanto una spiegazione di certi aspetti del territorio.
Noi interpretiamo tutto quello che percepiamo attraverso queste mappe mentali. Di rado mettiamo in questione la loro precisione. Di solito non siamo neppure consapevoli di averle. Semplicemente presumiamo che il modo in cui vediamo le cose sia il modo in cui esse sono realmente. E i nostri atteggiamenti e comportamenti scaturiscono da queste congetture. Il modo in cui vediamo la realtà rispecchia il nostro modo di pensare e il nostro modo di agire.
 
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